Dai difetti umanoidi al consenso manipolato

C’è un principio in fisica per cui qualsiasi osservazione viene influenzata dal fatto che l’osservazione stessa sta avendo luogo – l’osservazione, in quanto comunicazione con l’elemento osservato, lo influenza e quindi altera l’osservazione stessa: se ti metti un termometro sotto l’ascella, la temperatura del termometro influenzerà la temperatura dell’ascella.

In modo simile – ma in grado ben maggiore – i difetti dell’osservatore sono un fattore primario nell’osservazione e ne costituiscono l’elemento principale; si potrebbe dire che qualunque sia il soggetto osservato, fondamentalmente l’osservatore sta sempre guardando in uno specchio che gli rimanda un riassunto dei suoi difetti di osservazione.

Che si tratti di venderti un detersivo, una weltanschauung (temine pomposo per “visione complessiva del mondo e dell’esistenza”), o una fregatura economica travestita da faziosità politica, gli ormai−non−più−tanto−apprendisti stregoni della produzione e sfruttamento del consenso alla fine hanno scoperto l’acqua calda: le valutazioni, scelte ed azioni degli esseri umani non sono completamente razionali.

Lo studio comparato delle vulnerabilità umanoidi, dei conseguenti difetti della democrazia e delle loro relazioni è un argomento notevole in sé; allo scopo di vedere di diventare più svegli, allo scopo di richiamare alla tua attenzione come il tuo consenso sia manipolato a tradimento a tua insaputa, come ciascuna debolezza individuale, innocente e trascurata, sfoci nel suo sfruttamento attentamente deliberato, studiato e programmato a danno della libertà, della democrazia, della società e della gente, e quindi stimolarti a valutare quanto ci sia realmente in gioco dietro queste porte lasciate ingenuamente aperte, ne menzionerò qui alcune concisamente. Ah, e le loro etichette non sono poi così importanti; lo sono le loro essenze.

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E c’è un comun denominatore in esse: puoi chiamarlo sabotare la nostra attenzione, puoi chiamarlo effetto. Se ti rendi conto che una delle qualità vitali di ciascun individuo è la capacità di affrontare, allora ciò che hanno in comune tutti i nostri difetti ed i loro sfruttatori è minare la nostra capacità di affrontare, la nostra compostezza: distrarre, far perdere la concentrazione, rovinare, bloccare, fissare, disperdere, allontanare la nostra attenzione. Se hai riscontrato che più si è causa e meglio sarà per tutto, allora ciò che hanno in comune tutti i nostri difetti – e che fondamentalmente sono – è che ci rendono maggiormente effetto. E peggiori sono i nostri difetti più siamo effetto. Sino al punto di non farcela. Ed oltre.

Perciò ripassiamo qualche difetto umanoide, dato che praticamente tutto dipende dal fatto che riusciamo o no a sollevarci un po’ al di sopra della gabbia che formano. E, a proposito, l’aggettivo “umanoide” significa semplicemente che simili difetti non sono degni di qualifiche migliori. Mi rifiuto di etichettarli “umani” dato che questo apre la porta alla loro tolleranza, il che è esattamente quello che non dobbiamo fare, invece di affrontarli per quello che sono: le sbarre delle nostre gabbie, i chiodi nelle nostre bare.

Siamo incoerenti:

Ci comportiamo più come un’incoerente grappolo composito che come un’unità coerente. Un caseggiato i cui abitanti si conoscono molto poco. Quanto spesso ci siamo chiesti seriamente se stessimo avendo a che fare ogni volta con la stessa persona – o se persino ci fosse una persona degna di questo nome dentro quel composto umanoide? Indipendentemente da quanto siamo indulgenti nel giustificare questa molteplicità inconsapevole come “umana”, potrebbe valere la pena di menzionarla qui per prima perché essa sostiene molti altri difetti: meno siamo un’unità coerente, meno siamo consapevoli dei difetti in ciascun abitante nel nostro grappolo.

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Siamo saccenti:

La qualità dei nostri giudizi si basa sulla qualità delle nostre informazioni, e diamo eccessivamente per scontato che le nostre informazioni siano vere, imparziali, complete, esaurienti, e così non ci prendiamo il disturbo di ispezionarle e verificarle e colmare le lacune. E siamo così arroganti che non ne siamo consapevoli: sopravvalutiamo noi stessi, e non siamo consapevoli di farlo, in un circolo vizioso. Conseguentemente le nostre opinioni ed il nostro voto vengono manipolate controllando quali informazioni ci vengono fornite, e ci vengono date in pasto informazioni intenzionalmente, deliberatamente ed accuratamente incomplete, alterate, distorte, quando non del tutto false.

Socrate sapeva di non sapere, noi non sappiamo di non sapere, perché pensiamo di sapere. Se tu sondassi le forme di vita più ignoranti sulla faccia della terra, come un topo o un umanoide, troveresti la più stupefacente certezza di sapere tutto ciò che c’è, che c’era e che mai ci sarà da sapere. Dicono che il diavolo si nasconda nei dettagli; sicuramente conta sul fatto che meno sappiamo e più siamo convinti di saperla lunga.
Suona ovvio, ma non è poi così ovvio: potremmo essere consapevoli di sopravvalutarci, ma difficilmente potremmo essere consapevoli di quanto, quanto profondamente, quanto intimamente, quanto specificamente ed in quale minuscolo livello di dettaglio. Noi pensiamo di avere informazioni sufficienti: pensiamo che quelle informazioni siano buone, vere, realistiche, complete, accurate; pensiamo che quelle informazioni siano buone perché pensiamo di averle portate alla luce con una ricerca libera, obiettiva, senza pregiudizi, esauriente; pensiamo di averle portate alla luce per conto nostro; e pensiamo di essere abbastanza saggi da valutarle altrettanto bene.
Cadiamo da manuale nella trappola di chi “la sa più lunga”: meno uno sa, e più “la sa lunga”.
Scoraggiante come pensare al futuro mentre si osserva un adolescente la cui ingenua arroganza gli impedisce di ascoltare e passare al setaccio, e quindi lo intrappola nell’essere incapace di imparare: dove sarebbe il mondo ora se ogni generazione fosse abbastanza furba da ripartire da quello che ha raggiunto la precedente, invece di sprecare la maggior parte degli sforzi di entrambe nel reinventare la ruota?

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Non è che siamo irrimediabilmente ottusi. È che diamo per scontato e non ci prendiamo il disturbo di ispezionare e verificare. La nostra idea di “esaurientemente” non si avvicina nemmeno lontanamente a quello che occorre veramente per essere efficaci. Le facoltà le abbiamo; solo che non decidiamo di usarle abbastanza a fondo e abbastanza scrupolosamente. Non è la qualità del nostro giudizio ad essere in discussione, almeno non tanto quanto lo è la qualità delle nostre informazioni.
La qualità del giudizio non può essere migliore della qualità delle informazioni su cui si basa; prova ne è il cambiamento di valutazione che segue il cambiamento di conoscenza. E la distanza fra la quantità e qualità delle informazioni che ci vengono date in pasto e la verità completa e dettagliata – vale a dire, le informazioni realmente necessarie per sapere, capire e valutare quello che sta succedendo veramente – è enorme.
Ma se la qualità delle nostre informazioni è scadente, beh, la qualità della nostra disposizione a ricercare, ispezionare e verificare è molto peggiore; il punto è che siamo passivi, non attivi: ci beviamo quello che ci viene dato in pasto e non siamo consapevoli di non sapere. Come risultato, le nostre opinioni, il nostro giudizio, il nostro voto sono controllabili controllando le nostre informazioni – e sono controllati.
Di questo difetto fanno tesoro i media dominanti; esiste una cosa chiamata censura di secondo livello: controllare quello che ti viene dato in pasto, invece delle tue opinioni in merito. Questo tesoro è il bottino delle guerre dov’è in gioco il controllo dei media ed i programmi parlamentari. I vincitori di queste guerre conquistano il potere di manipolarci attraverso il controllo di quello che verrà dato in pasto a noi ed ai parlamenti; un cittadino o un parlamento il cui tempo ed attenzione siano assorbiti da un tema è in tal modo efficacemente distolto da un altro tema.

Siamo senza riserve:

Vale a dire, non solo non siamo attenti alle lacune, a quello che non ci viene dato in pasto; non siamo attenti neanche a ciò che ci viene dato in pasto. Questo difetto ha a che fare con la seconda sfaccettatura dell’informazione: quel che ci viene dato in pasto è verificabile? Ci manca l’approccio del rilevare e discernere quello che è verificabile da quello che non lo è: ciò che è specifico da ciò che è indefinito.

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Ignora la retorica che stimola le tue emozioni: quella viene usata come copertura e tu adesso stai guardando attraverso di essa; quello che ti sta venendo detto è sufficientemente specifico e dettagliato perché tu possa andarlo a verificare? Una cosa è dire: “Io sono il paladino di questo e quello…” – una dichiarazione che nasconde dietro la sua retorica il fatto che è vaga e generica e che quindi non c’è nulla in essa che si possa verificare. Tutt’altra cosa è dire: “Il giorno x nel luogo y ho firmato la legge tal dei tali che dice: nella circostanza così e cosà si applica la condizione tal dei tali, in modo che così e cosà…” – adesso, indipendentemente da qualsiasi retorica ed appello emozionale ci possano essere, hai dettagli abbastanza specifici da poter andare a verificare se quella persona il giorno x nel luogo y ha firmato o no la legge tal dei tali che dice così e cosà, ecc. ecc.
Sfruttando questo difetto, politici e simili possono passare inosservati – e lo fanno – quando usano sul palcoscenico vaghe generalizzazioni che non significano nulla e conquistano il nostro consenso sulla base di quel nulla, mentre dietro le quinte sono liberi di continuare a sostenere indisturbati l’esatto contrario.

Ma la cosa può anche essere persino molto peggio di così, e ad un livello persino più basilare: la comunicazione, che talvolta è fatta di domande e risposte. Se la gente risponda alle domande o le eluda è senz’altro uno studio rivelatore in sé; esercitati nell’essere pienamente consapevole di ciascuna domanda esatta posta, e poi vedi se quell’esatta domanda abbia ricevuto risposta o no – “esatta” qui è la parola chiave. “…”, “Perché me lo chiedi?”, “Và all’inferno.”, “È tardi!”, “Una volta avevo un orologio …”, “Perché non te ne vai semplicemente a comprare un orologio?”, “Mi aspettavo che mi chiedessi del tempo …”, “Se solo tutti noi potessimo avere più tempo …”, “Bla, bla, bla …” rispondono a “Che ore sono?” Beh, divertiti ad effettuare questo studio sui politici: scoprirai che si farebbero fucilare da un plotone di esecuzione piuttosto che rispondere a una domanda.

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Non siamo valutativi:

Ci manca tanto l’approccio quanto la vigilanza nell’individuare la tendenziosità nell’informazione. E la tendenziosità è individuabile in cosa, quando, come, ecc.: quali parti dell’informazione vengono fornite o trattenute, perché viene data adesso, come viene presentata, ecc. Invece, siamo inclini a giudicare il monaco dall’abito: il modo in cui ci presentano qualcosa determina il merito della nostra valutazione. Rifiuteremmo il valore di pi greco da un barbone e faremmo tesoro dello stesso valore da un presentatore, invece di mettere alla prova il dato e basta, in ambo i casi allo stesso modo.
Ma non ci sono limiti alla nostra pochezza, ed arriviamo persino al punto incredibile di condonare un trucco criminale invece di saltare al collo di chiunque osi commetterlo: quando qualcuno sta fraudolentemente spacciando per assodato quello che assodato in primo luogo non è, non ce ne accorgiamo nemmeno. Qualcuno ci presenta il punto A come premessa implicita del punto B, e noi diamo il punto A per scontato senza nemmeno renderci conto che è il punto A a dovere ancora venire dimostrato come vero in primo luogo.
Come risultato, i conquistatori dei media dominanti e dei programmi politici e pubblici presentano informazioni intenzionalmente scarse, e selezionate, e tendenziose, e sapientemente confezionate; e noi li mettiamo in grado di condurre una censura di secondo livello: possiamo avere qualunque opinione, ma non siamo consapevoli che qualcuno sta decidendo su che cosa possiamo avere un’opinione, e di cosa resteremo all’oscuro. La tendenziosità nel confezionamento è una scienza in sé, e conseguentemente è un peccato gravissimo pesare la confezione e persuadersi di avere pesato il contenuto.

Siamo impazienti:

Apparentemente privilegiamo la rapidità rispetto all’esattezza, cosa su cui si potrebbe discutere, dato che entrambe hanno dei vantaggi e ci sono casi in cui è preferibile l’una o l’altra. Ma la verità è ben diversa: non siamo proprio capaci di restare lì senza reagire abbastanza a lungo da essere in grado di ascoltare, di osservare, di pensare, di discernere, di renderci conto, di capire; proprio non riusciamo ad affrontare circostanze, cose, persone, idee, con la dovuta compostezza senza avvertire qualche tipo di pressione crescente che ci ordina di saltare per aria come mezzo per sfuggirle.

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Come se la corrente da reggere fosse troppa per noi ed i nostri fusibili saltassero, provocando lo scatenarsi di una scarica attraverso le nostre facoltà; una scarica della nostra incapacità di padroneggiare noi stessi. Se fissiamo troppo a lungo un umanoide negli occhi, la reazione scontata sarà: “Cazzo vuoi? Cazzo c’hai da guardare?” In effetti, gli studiosi del comportamento animale ci dicono di non fissare negli occhi gli animali perché la prenderanno come una sfida, in quanto il confine della consapevolezza animale è più o meno la difesa del loro territorio o ruolo dominante.

Un essere umano, in quanto entità non semplicemente consapevole, ma anche consapevole di essere consapevole, ha innumerevoli altre ragioni per fissare, non ultime ponderare, fruire, o il puro essere lì a proprio agio, e questo come il primissimo requisito per essere causa invece che effetto e conseguentemente poter arrivare da una qualunque parte. Un essere umano è consapevole di essere consapevole, ed è causa; un umanoide si comporta come un animale, ed è effetto. Meglio sottolinearlo: il requisito vitale per arrivare da qualche parte è essere causa invece di effetto, noto come affrontare, e l’affrontare è la capacità di essere lì a proprio agio e basta, osservando senza reagire, in modo da agire secondo necessità; affrontare non è agire comunque sia, affrontare è osservazione perfetta ed azione secondo necessità e da una posizione di causa, non di effetto.
Ci sono molti modi in cui possiamo far saltare i nostri fusibili, ma tutti probabilmente classificabili sotto attaccare, scappare, evitare, ignorare, soccombere. Invece di affrontare e basta.

Qualunque sia il tipo di fusibile, il punto è questo: in realtà preferiamo sfuggire alla pressione piuttosto che dominarla. E quando si è precipitosi, affrettati, impazienti, dire che le informazioni, sulle quali sono basate le proprie opinioni e decisioni, sono grossolane non è che un delicato eufemismo; gli ovvi risultati sono quelli del brancolare nel buio in un mondo dai bordi taglienti basato sull’esattezza: quelli che Guglielmo Tell si aspetterebbe per la testa di suo figlio posta proprio sotto la mela a cui sta mirando se dovesse cedere a questa “impazienza”.

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Fondamentalmente, la verità è che la nostra capacità di affrontare si disattiva. E puoi osservare come questo ci farà finire nei guai quando lo consideri dal punto di vista di ciò che è stato detto in senso alquanto opposto: che la via di uscita è affrontare di più, e la via verso il fondo è affrontare di meno, sempre e senza eccezioni.

Un punto questo in cui è importante chiarire cosa sia esattamente l’affrontare, a causa di un fraintendimento qui che potrebbe mandare tutto a monte. Torna comodo per spiegarlo il paragone fra un’auto normale ed un’auto sportiva. Assetto più basso, sospensioni più rigide, gomme più larghe e controlli più diretti, sensibili e precisi consentono all’auto sportiva di correre più veloce prima di perdere il controllo; come risultato, sulla medesima pista alla medesima velocità l’auto normale deve scegliere fra rallentare o andare a sbattere, mentre l’auto sportiva può gestirlo e persino trovarci arte, piacere e divertimento. Che cosa sta ricevendo l’auto sportiva dalla pista, dalla velocità, dall’ambiente, curva dopo curva, un momento dopo l’altro? Sollecitazioni: una quantità di sollecitazioni improvvise, forti, varie, parzialmente imprevedibili. E come sta rispondendo, curva dopo curva, un momento dopo l’altro, esattamente? Non con collera, agitazione, aggressività. E neppure con apatia, sopraffazione, resa. Ma mantenendo la sua compostezza, lucidità, risolutezza. In altre parole, l’auto sportiva ce la fa perché ha limiti di causa più alti prima di venire spinta ad effetto, e raggiunge ciò con il suo maggiore autocontrollo.
Questo è il fraintendimento chiave: di nuovo, affrontare non significa meramente attaccare comunque, impulsivamente; affrontare significa mantenere un autocontrollo perfetto in modo da osservare, decidere e agire – o non agire – per il meglio, qualunque sia l’osservazione, decisione, azione o non−azione richiesta. Affrontare non è solo il coraggio di guardare in faccia la situazione e fare qualcosa; è quello più il rimanere causa, prevalendo su qualsiasi tentativo di renderci effetto, in modo da osservare la situazione per com'è effettivamente, e decidere ed agire per com'è effettivamente richiesto, dato che essere effetto significa venire influenzati inconsapevolmente, allontanandosi così dalla soluzione.

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Qui l’esempio dell’auto sportiva torna comodo anche per aggiungere che questa è un’abilità e come tale va sviluppata ed imparata ed addestrata e praticata: sviluppare un’auto sportiva richiede applicazione sia di pensiero che di azione – ci vuole ingegneria, lavoro d’officina, prove in pista, e molta pratica sino a farne un’arte. Potresti avere sentito chiamare l’arte più basilare della guida “dérapage”, “controsterzo”, “guida di traverso”, “drifting”… quest’arte scaturisce dalla propria abilità di affrontare e quindi padroneggiare impeccabilmente acceleratore e sterzo, contrapposta all’inclinazione a lasciarsi andare al reagire e quindi finire in testacoda.

In altre parole, ancora una volta, tutto ciò che si sviluppa e si addestra è verso cosa? Uno spostamento da effetto a causa, dalla reazione cosiddetta “istintiva”, “naturale” all’azione lucida ed intenzionale. Re−agire è essere effetto: qualcosa è causa su di noi, nel senso che preme un bottone in noi – causa – e noi saltiamo su a comando – effetto – una volta o un milione di volte, non fa alcuna differenza. Agire è invece essere causa: siamo noi che osserviamo, decidiamo, agiamo – causa – ed ogni singola volta c’è un fattore interposto fra l’ingresso, l’informazione che osserviamo, e l’uscita, l’azione che intraprendiamo, e quel fattore è un fattore attivo: noi.
E quel “ogni singola volta” non dev’essere preso alla leggera. A causa del nostro essere quantitativi e in più impazienti, la ripetizione ha un lato oscuro per noi, dato che può venire usata per vincere la nostra vigilanza. Un pilota di un’auto sportiva deve rimanere pienamente vigile sempre – ogni giro, ogni curva, ogni secondo: ogni volta che abborda la stessa curva, la abborda come se fosse la prima volta, la prima curva nell’intero universo e nella storia, in un certo senso, mentre fa tesoro di ogni esperienza precedente; niente di meccanico, niente dato per scontato.

Questa ferma vigilanza è l’esatto opposto dell’obiettivo che ogni manipolatore ha in mente per noi: noi siamo una risorsa di cui vogliono servirsi, quindi il loro primo obiettivo è disinnestare il nostro autocontrollo, ed il loro secondo obiettivo è renderci controllabili da chiunque abbia il telecomando, perché il loro terzo obiettivo è usarci, il che significa farci eseguire a comando qualsiasi re−azione che possano ritenere utile ad incrementare il loro potere e peggiorare la nostra condizione.

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In particolare, la propria abilità di conservare la propria vigilanza, la propria padronanza di sé, la propria capacità di affrontare, fa da spartiacque fra la vittima inconsapevole e l’oppressore deliberato, e più in generale e precisamente fra la fonte potenziale di guai ed il soppressivo. Perché fondamentalmente si potrebbe dire che il soppressivo ha successo nel trasformare gli altri in fonti potenziali di guai perché ha limiti più alti di quelli delle sue vittime: il soppressivo riesce a mantenere la propria padronanza di sé mentre aumenta in segreto la pressione contro le vittime finché esse non perdono la loro e gli saltano i fusibili. Potremmo anche chiamare questa capacità quella di resistere sotto tortura: quanto tu sia forte è misurato da quanto è alto il livello cui puoi resistere senza perdere il tuo te stesso pienamente presente e consapevole; e quando si è soggetti ad oppressione, a soppressione nascosta o palese, quello è un primo requisito di qualunque chance di rovesciarla, batterla, uscirne.

Mai notato una certa pressione nella nostra attuale società che promuove l'essere "istintivi"? Che cos'è questo cosiddetto "istinto": è essere precognitivi oppure impazienti? Esiste certamente un'area di consapevolezza e conoscenza che anticipa le cose ed il contatto oggettivo con esse, ed è senz'altro degna di considerazione, ma esiste anche quello che qui ho etichettato "impazienza"; quindi quale è l'uno e quale è l'altro? Di che si tratta, di volta in volta? C'è un po' di differenza, dopotutto, fra il semplicemente sapere qualcosa di vero indipendentemente dal comunicare con esso, ed essere incapace di essere semplicemente lì e comunicare. Inoltre, l'uno è probabile che faccia a pezzi l'altro: più si è impazienti, meno si è consapevoli di sè. quindi ti invito a mantenere sotto esame tutti i casi di "istintivo è bello" ed a guardare dentro e dietro a ciascuno di essi, tanto scrupolosamente quanto il loro impatto sociale è alto: ci sta invitando più vicino all'uscita o più a fondo nel dedalo?

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Siamo grezzi:

Inclini alla grossolanità e refrattari alla sottigliezza, prediligiamo cocciutamente il semplicistico sul dettagliato. Supponi che qualcosa di pericoloso si stia muovendo vicino a noi nel buio, e la sola luce disponibile è stroboscopica; il nostro destino dipende inesorabilmente dalla velocità del lampeggio stroboscopico: troppo lenta la velocità, troppo scadenti e scarse le nostre informazioni, troppo poche le nostre possibilità. In precedenza ho richiamato la tua attenzione sul fatto che tutte le risposte sono fondamentalmente semplici; beh, questo è completamente diverso. Guai a colui che prende la sciatteria nel metodo per semplicità nel risultato. Quando osserviamo qualcosa, è come se ne scattassimo una serie di fotografie – e ciascuna foto, immobile e bidimensionale, non è che una lontana approssimazione della cosa reale, tridimensionale e in movimento. Quindi, quando noi e quella cosa saremo faccia a faccia, faremmo meglio ad avere avuto e studiato il maggior numero possibile di sue foto, o sarà peggio per noi. Abbastanza prevedibilmente, invece, ci arroghiamo il diritto di dettare i destini della gente e delle questioni sulle solide basi di un paio di loro foto tessera.

Nello stesso ordine di idee c’è la ripetizione dell’ispezione. Repetita iuvant, le ripetizioni giovano, dicevano i Romani. E tu puoi verificare la sua veridicità in entrambi i suoi usi: per chiarire o per manipolare. Accenno alla manipolazione in un altro paragrafo, quindi qui è sufficiente dire che quanto al chiarimento devi solo provare e verificare: prendi quello che vuoi e osservalo, ispezionalo e studialo ripetutamente, e poi nota se nel farlo trovi sempre più comprensione e sfaccettature e dettagli non notati prima. Una volta fatto ciò, il prossimo passo è ripeterlo con qualcos’altro, e poi con qualcos’altro, finchè non hai una base statistica abbastanza ampia su cui poter affermare conclusivamente se la sottigliezza nell’osservazione sia universalmente una virtù utile e funzionale. Alla luce di tutto questo, considera come, più la gamma di colori che siamo capaci di rilevare si restringe in direzione del bianco e nero, più facile sia il compito di coloro che mirano a spostarci dall’autocontrollo al controllo telecomandato.

Siamo quantitativi:

C’è un vecchio detto lombardo, “Chi vusa püsée la vàca l’è sua.” Letteralmente significa: “Chi grida più forte, la mucca è sua.” O, in termini più espliciti: “Chi grida più forte conquista la proprietà della vacca agli occhi della gente.” Per chiunque, per arrivare da qualsiasi parte, due ingredienti sono vitali: intelligenza e forza. Entrambi sono vitali, il che significa che, in mancanza dell’uno o dell’altro, non si va da nessuna parte. E fra intelligenza e forza, noi privilegiamo la – o piuttosto soccombiamo alla – forza. Noi, esseri fatti di qualità, abdichiamo al mondo, fatto di quantità. Se c’è qualcosa per cui meriteremmo la dannazione, beh, eccolo: qualsiasi cosa diventa vera per noi a furia di pura e semplice ripetizione, impatto, forza, quantità, indipendentemente dalla sua verità.

Qui è dove dimostriamo di cosa siamo fatti, acciaio o argilla. Qualsiasi montatura, qualsiasi bugia, diventa la verità se viene ripetuta abbastanza in lungo e in largo in termini di tempo, spazio, forza, ripetizione o qualsiasi forma di quantità, a dispetto della sua qualità; e siamo propensi a vedere in essa della qualità in base alla quantità con cui siamo stati sopraffatti.

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Un esempio carino di uno dei molti modi in cui soccombiamo a questo sono quei dibattiti “infuocati” fra pupazzi – chiedo scusa, fra politici: la maggior parte del loro tempo, scaltrezza ed energie sono spesi nel parlarsi sopra a vicenda e noi, cosa facciamo noi? Permettiamo e tolleriamo che lo facciano, invece di impedire ai politici di farlo o dissuadere i moderatori dal permetterlo, in un modo o nell’altro. E così, “Il pupazzo che grida più forte ha la nostra fiducia”. E, all’altra estremità, più uno è un essere umano genuino e non adulterato, e quindi incline ad un comportamento difforme dalle maniere da palcoscenico che siamo abituati a considerare “normalità spontanea” nei media, più non lo teniamo in considerazione. E quanto spesso vediamo gente rozza impegnata ad idolatrare la forza e, sua degna contropartita, a brutalizzare l’intelligenza?
E la quantità può essere servita calda o fredda: possiamo venire sopraffatti per sovraccarico o per sfinimento.

La sopraffazione a caldo, veloce, per sovraccarico sfrutta il collo di bottiglia del nostro bisogno dei dovuti tempo ed attenzione per valutare criticamente le cose. Il trucco è imboccarci con più di quanto riusciamo a inghiottire, sommergerci con una velocità e quantità di informazione superiore alla nostra capacità di ricevere e valutare consapevolmente. L’eccesso di input riduce la nostra capacità di valutare criticamente, ed è ipnotico: il versamento risultante è il nostro venire ipnotizzati in una certa misura. Puoi notare come i mass media dominanti – con i mass media dell’arte, dell’intrattenimento e della pubblicità ai primi posti – si specializzino in questo: ci inondano di informazione inutile perché sanno bene che l’eccesso di informazione riduce l’abilità di valutare criticamente – e porta quindi ad un’accettazione più passiva e noncurante. Come esempio “innocente”, fai caso a quanto siano ingombre e veloci oggi le scene dei film, della televisione, e particolarmente dei video musicali: non hai bisogno di ricorrere al rallentatore per renderti conto che con una tale quantità di elementi per microsecondo mostrati, nessuno sarà mai conscio di ciascuno di essi.

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La sopraffazione a freddo, lenta, per sfinimento conta sul logorio. Gutta cavat lapidem, dicevano i Romani: la goccia scava la roccia. Quale che sia l’imposizione cui resistiamo, basta solo continuare con essa indefinitamente, e presto o tardi crolli, senza neppure rendertene conto, ed anche tu alla fine pronunci l’ultima frase di 1984 di Orwell: ami il Grande Fratello. Si potrebbe dire che ancora siamo stati ipnotizzati; solo, per mezzo del tempo invece che dell’impatto. Come esempio “innocente”, facci caso nella pubblicità: improvvisamente i mass media iniziano a martellarci con qualcosa, e potremmo persino trovarlo risibile o irritante; ma è solo questione di tempo prima di ritrovarci a considerare non solo che è una parte scontata del nostro mondo, ma soprattutto che lo è da sempre. In principio eravamo offesi dalla bassezza di un jingle; alla fine neanche ci accorgevamo di canticchiarlo. Se l’arco di tempo trascorso dovesse poi essere abbastanza significativo in una vita, allora potremmo ritrovarci ad essere persino nostalgici in merito. Che importa? Il Grande Fratello non ha per niente fretta.
E vale senz’altro la pena di menzionare che con funziona anche in senso inverso: non c’è niente come i media che lascino cadere una questione scomoda perché la lasciamo cadere anche noi. Certo, i media ci bombardano a tappeto con una valanga continua di altre questioni e quindi, dato che chiodo scaccia chiodo, molliamo ognuna di esse persino prima che l’impatto iniziale si sia esaurito, e quindi ben prima che il nostro esserne informati possa avere qualsiasi altra funzione al di là dello spingerci ulteriormente nell’apatia; ma la nostra condizione è tale che il fatto che i media la lascino cadere sarebbe sufficiente a farcene dimenticare, ben prima di affrontarne l’importanza o di fare qualcosa in merito.

Ed infine possiamo essere quantitativi al punto di tradire noi stessi ignobilmente. Un esempio davvero emblematico è il “Grande Fratello”, a condizione di conoscere 1984 di George Orwell. Il Grande Fratello di Orwell è la quintessenza della soppressione la quale, oltre ad essere un’orribile concreta possibilità, è lì per descrivere il male in termini assoluti, così che possiamo riconoscere la sua meccanica all’opera qualunque siano le circostanze. Come tale, è il prodotto ed il simbolo della nostra più elevata capacità di osservare, analizzare e stigmatizzare.

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Poi, accade la blasfemia inconcepibile: il Grande Fratello diviene la madre di tutti i reality show. Il bersaglio stesso contro cui puntiamo la nostra arma ce la strappa di mano e la rivolge contro di noi. La forza bruta schiaccia l’intelligenza. O, piuttosto, l’intelligenza permette alla forza bruta di fare ciò. E ciò che veniva paventato come un incubo dall’intelligenza, un’esistenza sotto sorveglianza, viene usurpato dalla pura forza bruta della televisione e diventa la frivola norma abietta dell’intrattenimento per fessi istupiditi.
Nel corso di una generazione, siamo passati dal conoscere il Grande Fratello come il male assoluto incombente della spietata ed onnipresente espropriazione e distruzione del nostro sé più profondo, al conoscere il Grande Fratello come la banalizzata normalità dello spiarsi reciprocamente la propria disorientata vacuità inscenata, grazie ai burattinai della nostra cultura. Nel corso di una generazione, siamo passati dal guardare il male dritto negli occhi all’essere il prodotto del suo successo. Questo non è soltanto l’insulto ultimo della forza bruta nei confronti dell’intelligenza. Questo è un risultato non da poco da parte dei soppressivi, ed una vergogna non da poco da parte nostra.

Se non proteggiamo la nostra intelligenza con abbastanza forza, essa rischia non solo di venire schiacciata, ma, ancora peggio, di venire anche usurpata e rivolta contro di noi, e questo è esattamente ciò che la personalità “vincente” farà alla personalità “perdente”: quando l’intelligenza ritrae per stigmatizzare, usa le virgolette per esprimere agli altri che il suo ritratto è una parodia a fini di critica; quando la personalità “vincente” usurpa quel ritratto con la forza bruta, essendo incapace anche solo di notare quelle virgolette, le strappa senza tanti complimenti, e poi si impadronisce di quel ritratto alla lettera e lo usa per nutrire la sua forza bruta fagocitando la sua stessa caricatura di fronte ad un pubblico che si inchina, composto di personalità “perdenti”.

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Siamo reversibili:

I nostri comportamenti determinano i nostri atteggiamenti, piuttosto che il contrario come dovrebbe essere. Non ci sono effetti senza cause, e noi non facciamo nulla se prima non abbiamo deciso di farlo; che sia molto prima o praticamente nello stesso momento dell’azione, che quella decisione ci piaccia o no, l’intenzione precede e causa l’azione. E le nostre intenzioni e decisioni hanno origine dai nostri punti di vista e dai nostri atteggiamenti. Così, solitamente i nostri punti di vista ed atteggiamenti determinano i nostri comportamenti, e tutto il problema sembrerebbe essere solo questione di quanto siano sani ed onesti, vale a dire la qualità della nostra informazione e la qualità del nostro giudizio.
Ma sfortunatamente possiamo essere rivoltati: se possiamo essere portati ad agire in un dato modo, ed a continuarlo abbastanza a lungo, il comportamento plasmerà l’atteggiamento, ed assumeremo l’atteggiamento risultante da quel comportamento. Poi quell’atteggiamento plasmato a sua volta plasmerà i nostri comportamenti conseguenti, come al solito. Una sorta di altra sfaccettatura dell’essere sopraffatti dalla quantità, la nostra sequenza basilare dal pensiero all’azione può venire dirottata dall’esterno, e dall’azione al pensiero. Quindi coloro che in un modo o nell’altro possono controllare una quantità sufficiente del nostro comportamento per plasmare i nostri atteggiamenti plasmeranno, controlleranno e sfrutteranno entrambi, ed all’ingrosso. Tienici imbavagliati abbastanza a lungo, e chiameremo pazzo ed aiuteremo a lapidare chi canta liberamente e chi pensa liberamente e chi parla liberamente e l’informatore che denuncia i nostri imbavagliatori.

Ma questo non è tutto: più in generale, siamo inclini a scambiare cause ed effetti. Siamo così inconsapevoli ed apatici che praticamente non ci avviamo mai lungo il cammino dei perché che alla fine conduce ad un vero perché. E così, quella passività ci prepara a berci un effetto come la causa. Un perché sbagliato non è la causa; potrebbe essere un effetto, potrebbe non entrarci per nulla. Se siamo disposti a berci un perché sbagliato, allora il passo è breve per essere disposti a berci l’effetto come la causa. Se siamo disposti a berci che la luna è fatta di formaggio, è molto probabile che ci beviamo anche che le maree causino l’orbita lunare. Ancora una volta i bambini devono insegnarci la saggezza che abbiamo dimenticato: continuare a chiedere perché a dispetto di reticenze e minacce sinché salta fuori un vero perché a soddisfare la nostra ricerca di comprensione e soluzioni.

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Siamo faziosi:

Privilegiamo le nostre certezze accettate, le nostre posizioni acquisite, le nostre idee fisse preferite su quelle proposte a prescindere, solo perché queste sono dentro di noi e quelle invece sono fuori, e così queste diventano pregiudizi, e così difendiamo le bugie una volta bevute e diventiamo gli alleati più preziosi dei nostri nemici. Mentire, anche a sé stessi, rifiutare di vedere quello che abbiamo davanti al naso per motivi ideologici, è all’ordine del giorno fra noi. Siamo perfettamente disposti a calpestare qualsiasi prova, tanto per le ragioni più sordide quanto per le più “elevate”, perfettamente disposti a condannare chiunque a morte per ragioni che vanno da uno spregevole profitto personale al convincimento che sia un sacrificio accettabile per salvare il mondo.
In ciascun caso, chiudiamo deliberatamente gli occhi e dimentichiamo che la nostra prima responsabilità in quanto esseri umani è quella di avere il coraggio di guardare. E di averlo sempre e comunque, succeda quel che succeda.
Senz’altro la faziosità politica può qui essere un caso tipico come mero studio di “Quanto scemi possiamo essere? Quanto tragiche le conseguenze?” “Divide et impera”, dividi e domina, non dovremmo averlo imparato secoli fa? Tratterò più avanti quanto serio e preciso sia il significato di questo detto latino, ma sono sicuro che lo subodori già.

La nostra inclinazione alla faziosità è una benedizione per coloro che mirano a sfruttarla: essa significa che i loro sforzi saranno fruttuosi, in quanto una volta che abbiano avuto successo nel telecomandare la nostra faziosità a loro vantaggio e nostro danno, potranno stare sicuri che non li deluderemo, e al contrario ripagheremo i loro sforzi su scala molto vasta. E la faziosità può avere una quantità di volti, e forme sottostanti, come: cecità della lealtà, brama di certezze, bassezza, pura e semplice fissazione, e vera e propria inerzia.

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La faziosità per cecità della lealtà è paradossale perché la lealtà cieca è in realtà un tradimento. Nel metodo o nell’oggetto. Sulla base del nostro senso di lealtà non obiettivo tradiamo nel metodo, rifiutandoci di ispezionare onestamente ciò a cui siamo leali. Ma qualsiasi cosa degna di esserle leale lo dimostra superando qualsiasi scrutinio, ispezione, prova. Conseguentemente essere onesti nel metodo espone al rischio di venire chiamati ad un adeguamento, uno spostamento, o persino uno sconvolgimento, se ciò cui siamo leali dovesse fallire la prova. E così qui il nostro senso di lealtà non obiettivo si sposta dal tradire nel metodo al tradire nell’oggetto, rifiutando di domandarci onestamente:
Che cos’è veramente quello a cui stiamo essendo leali, in ultima analisi? Una qualche cricca che beneficia presumibilmente dal danno sicuro di tutti, o tutti noi? Un parassita della vita, o la vita nel suo insieme?
Quando nella "Fattoria degli Animali" di Orwell i maiali si autonominano "più uguali degli altri", hanno bisogno di cani feroci in uniforme che li proteggano dagli altri animali, da loro cornuti e mazziati. Ebbene sia ben chiaro che il compito di chi indossa un'uniforme è proteggere il popolo dai potenti, mentre proteggere i potenti dal popolo è alto tradimento, e che pur di sfuggire alla propria coscienza si finirà per smarrirla, con tutte le conseguenze del caso per tutti noi.

La faziosità per brama di certezze è il nostro equilibrio, talmente fragile, talmente sulla difensiva che siamo più interessati alla rassicurazione che alla verità. Temiamo di perdere noi stessi se le nostre fondamenta venissero scosse. Abbiamo fuggito e dimenticato il nostro essere fondamentalmente il nostro potenziale di comprensione, ed abbiamo conferito al guscio dell'ottusità e dell'autorità il titolo di nostro "protettore" dall'acume e dall'integrità. Abbiamo irrigidito e rimpicciolito la nostra identità nel guscio di poche certezze non discutibili e rinunciato al nostro nucleo, che è la capacità di affrontare e setacciare per estrarre la verità.

La faziosità per bassezza è un’altra forma di rimpicciolimento, scaturendo o dal disprezzo del prossimo o dall’incapacità di vedere un’area più vasta delle proprie immediate vicinanze o un modo onesto di farcela.

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La faziosità per fissazione è come essere ipnotizzati: si viene avvisati del precipizio più avanti, si ringrazia come se si avesse ascoltato, e poi si cammina risolutamente oltre il suo ciglio e si precipita come se non si avesse neanche sentito. Questo prova che si è o ipocriti o non lì a controllare sé stessi, o entrambe le cose; un fatto puro e semplice.
È cosa normale come ubbidiamo prima alle nostre fissazioni interiori, e solo in second’ordine prendiamo in considerazione le circostanze effettive, ma solo tanto quanto esse calzano alle nostre fissazioni.
Si può anche difendere il proprio stato ipnotico, e prendersela per i tentativi di farcelo notare.
L’irrazionalità non è solo uno stato meramente passivo: essa difende sé stessa attivamente. A spese del soggetto. E di tutti noi.
Ed i fondovalle dei nostri sé interiori, da dove guardiamo il nocciolo dell’esistenza, di noi stessi, dei nostri simili, della vita e del mondo, sono pericolosamente disseminati di raccapriccianti discariche con montagne di gente precipitata che non è stata capace di vincere le proprie fissazioni, e di nostre speranze riposte in loro che ci riuscissero. A parte la solitudine, discariche tanto pericolose ed inquinanti quanto può esserlo la perdita della speranza.

La faziosità per pura inerzia è una vergogna come quella di un gommone di salvataggio cui serva la stessa distanza di una petroliera per virare o fermarsi. La nostra intelligenza non è un fatto materiale, non è vincolata da leggi fisiche come quella dell’inerzia, eppure ci comportiamo come se lo fosse – il che è una vergogna ed un tradimento. Nonostante l’avere apparentemente osservato, messo a confronto, debitamente soppesato e genuinamente deciso in favore di un corso di azione o stato di cose migliore, di fatto si prosegue nel corso o nello stato che si è deciso di abbandonare, così indefinitamente da far nutrire il fondato timore che il cambiamento verrà posto in essere troppo tardi – se mai lo sarà. Un po’ come quegli enti o funzionari pubblici che persistono nel reato dopo che questo è stato debitamente riconosciuto e persino sanzionato come tale. E così la gente si sente come l’equipaggio della petroliera, che guarda il faro avvicinarsi mentre spera che il capitano non abbia dato l’ordine di virare troppo tardi, e addirittura si domanda se quell’ordine lo abbia dato veramente, quando il ritardo diviene così grave, date le circostanze, da diventare indistinguibile dall’inazione.

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L’inerzia emozionale è una sfaccettatura che vale la pena di menzionare di per sé stessa: qui l’essere associativi e l’essere inerziali si fondono nel nostro trasferire le nostre reazioni emozionali dal colpevole all’innocente. Il nostro sostegno alle vittime dei torti, e la nostra gratitudine verso gli eroi che li denunciano, prende la forma del trattarli come se fossero loro i colpevoli. Nota l’uso del termine re−azione: qualcuno o qualcosa aizza le nostre emozioni, e siamo effetto di quel qualcuno o qualcosa e del nostro trasporto emozionale. Ed una volta caricata la molla, si parte: chiunque e qualsiasi cosa sia a tiro per la durata di quel trasporto è spacciato.

Siamo “ragionevoli” − nel senso sottolineato dalle virgolette intorno:

Vale la pena rammentare che il verbo “giustificare” significa “rendere giusto qualcosa”, e poi puntualizzare che se qualcosa ha bisogno di essere “reso” giusto, ciò significa che non è affatto giusto in primo luogo. E noi prediligiamo la giustificazione rispetto al riconoscimento nudo e crudo della stortura; vediamo qualcosa di sbagliato e, primo, ci concentriamo istantaneamente sulle ragioni per cui il suo essere storto è giustificato e poi, secondo, siamo perfettamente disposti ad accontentarci delle ragioni che vengono fornite per cui non lo si può raddrizzare – evitando così accuratamente la premessa che potrebbe metterci in condizioni di raddrizzarlo: il puro e semplice riconoscimento che qualcosa di sbagliato è qualcosa di sbagliato e questo è quanto. Parte di ciò è che non siamo disposti ad affrontare qualsiasi punto in cui lasciamo a desiderare: è troppo duro guardarci per davvero allo specchio ed ammettere i nostri punti deboli.
E se conduciamo vite “ragionevoli”, presto ci ritroviamo strangolati da una giungla di cose storte, ed ancora incapaci di renderci conto di quanto la situazione sia seria, e di quanto grande sia la nostra parte nella responsabilità per essa. Questa “ragionevolezza” fra virgolette è una forma di cecità, ed una forma sottile in quanto il cieco non si rende conto di essere cieco. O, piuttosto, una forma più particolare che sottile nella misura in cui si afferma di vederci benissimo per nascondere tanto a sé quanto agli altri la propria intenzione di essere cieco.

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Un’altra benedizione per i manipolatori: è stato detto che dai loro frutti li riconoscerai, e senz’altro alla radice delle attività dei soppressivi c’è il gioco delle tre carte per manipolarti perché tu sia “ragionevole” in merito ai risultati – perché tu mandi giù risultati negativi, o mancanza di risultati, senza fare questioni e senza tante storie, battendo le zampe e basta, da brava foca ammaestrata.

Un esempio significativo di quanto possa mettersi male quanto a “ragionevolezza” è una persona religiosa che si beva passivamente le vedute basate sul cervello di uno strizzacervelli. Il termine pomposo “strizzacervelli” per riferirsi a psichiatri, psicologi, ecc. indistintamente non è inconsueto, lo è in certo qual modo di meno usarlo per evidenziare uno dei loro denominatori comuni di base: il loro dogma materialistico. Una persona religiosa di solito ritiene che certe precise entità metafisiche esistano: un’entità suprema creatrice di tutto, uno spirito o anima, ed un’intera dimensione di esistenza, mentre uno strizzacervelli solitamente ha una visione strettamente materialistica secondo la quale l’universo fisico è l’unica cosa che esiste.
Ne derivano, fra le altre cose, un punto di vista ed un conseguente approccio fondamentalmente speranzosi ed ottimisti della persona religiosa all’individuo, visto come potenziale causa, ed un punto di vista ed un conseguente approccio fondamentalmente disfattisti e pessimisti della persona materialista all’individuo, visto come effetto senza speranza. Credere nell’esistenza di entità metafisiche può fornire un fondamento assoluto stabile per il bene e il male, mentre la sua assenza può lasciare privi di qualsiasi assoluto e quindi apre la porta al relativismo assoluto sul bene ed il male, quindi questi fondamenti di tanto in tanto portano a conseguenze agghiaccianti quali quella per cui, mentre la persona religiosa considera gli esseri umani sacri a causa della presenza in loro di quella scintilla, la persona materialista potrebbe arrivare al punto di considerare i propri simili come mere pedine sacrificabili senza valore. D’altra parte, senz’altro degli assoluti deragliati hanno portato qualcuno a giocare col fuoco, litigando su chi andasse bruciato sul rogo, mentre qualcun altro, stoico, ha preservato fieramente la propria integrità a dispetto della convinzione della propria finitezza, quindi al di sopra c’è sempre il buon senso.

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Ma qui il punto è che anche lungi da tali eccessi la ragionevolezza da parte delle persone religiose non è affatto esente da conseguenze profonde.
Spacciare come dimostrato quello già dimostrato non è affatto, spacciare come la premessa quello che non è ancora la conclusione dimostrata, dare per scontato quello che non lo è, è una tecnica per imbrogliare così usuale che ciascuno di noi dovrebbe essere allenato a riconoscerla e respingerla incrollabilmente.
Quando uno strizzacervelli indottrina una persona religiosa su come l’individuo sia un cervello, lo strizzacervelli sta usando quella tecnica, e la persona religiosa sta permettendo allo strizzacervelli di farla franca. Sempre più, poco alla volta, pezzo per pezzo, la persona religiosa sta permettendo uno svuotamento strisciante dall’interno dei suoi fondamenti circa che cosa siano il mondo e l’individuo: il fondamento al nocciolo dell’esistenza sta venendo rubato dallo spirito in favore del cervello.

Il punto non è scegliere da che parte schierarsi in una sfida tra fedi: quello è inutile o persino dannoso. Il punto è impedire a chiunque di giocare sporco. Il materialismo di questi tempi spaccia sé stesso come dato per scontato proprio come la metafisica ha fatto in passato, e se si ispeziona un po’ più da vicino si vede come il materialismo sia un articolo di fede ed un dogma quanto e più della metafisica; un esempio di ispezione è in termini di statistica: basta mettere a confronto le probabilità che la vita si sia sviluppata dagli elementi inanimati dell’universo fisico per caso con le probabilità che lo abbia fatto per intenzione, qualunque sia quell’intenzione e la sua provenienza.

Quindi il punto è imporre l’onestà: materialismo e metafisica devono competere ad armi pari, ed in base a nient’altro e niente di più del dimostrare vere le proprie tesi. L’oggetto del contendere è: che cos’è l’individuo, uno spirito o un cervello? Dove si trova l’individuo, in nessuna ubicazione materiale o nel cervello? O, più specificamente: quanto dell’individuo si trova dove? Quanto nell’anima, quanto nel cervello? E soprattutto: chi può dimostrare cosa e come?

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Invece, a furia di essere ragionevole, la persona religiosa finisce persuasa a considerare l’anima come una qualche specie di accessorio marginale, non più come il puro sé. Inoltre, la persona religiosa finisce persuasa ad accettare i tentativi di influenzare l’individuo con mezzi materiali come gli psicofarmaci come legittimi invece di denunciarli come blasfemi.
Questi sono paradossi enormi, ed inghiottirli in un modo così liscio, praticamente inconsapevole, è una ragionevolezza altrettanto enorme – o piuttosto la ragionevolezza ultima.

Siamo scorretti:

Guardiamo le cose sbagliate nel modo sbagliato – emettiamo i nostri verdetti sulle cose dopo avere accuratamente esaminato qualcos’altro. E ciò ha addirittura molte forme, “verticalmente” come pure “orizzontalmente”: non solo facciamo miseramente cilecca guardando il termometro dell’acqua per farci un’opinione su quanta benzina abbiamo nel serbatoio, ma in aggiunta privilegiamo la confezione sulla sostanza, il vistoso sull’importante, l’impressionante sull’effettivo, il soggettivo sull’oggettivo, l’emozione sulla logica. In altre parole, non solo giudichiamo il monaco dall’abito, ma lo giudichiamo anche dall’abito del monaco sbagliato.
Fai una prova: prendi la stessissima informazione e scolpiscila nel marmo, stampala in un'enciclopedia, scrivila in un giornale, e scarabocchiala su della carta igienica; oppure mettila in bocca ad un accademico, ad un politico, ad un pagliaccio e ad un barbone; poi presentala alla gente in ciascuna forma e fai un grafico di due cose in funzione del mezzo che trasporta l'informazione: la disposizione ad esaminarla, e la disposizione ad accettarla ciecamente.

Questo non è "umano", non più di quanto lo sia la follia. Follia che porta fuori strada sè e gli altri. Ed ha persino un’etichetta specifica: principio di autorità – ed è un difetto di per sé stesso. Quando riceviamo un’informazione, assegniamo un punteggio a quanto autorevole è la fonte ed a quanto credibile è l’informazione, e poi assegniamo questo punteggio all’informazione.

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Non ci rendiamo conto che quelle sono cose del tutto separate dall’informazione stessa. L’autorità della fonte è una questione, in quanto potrebbe essere un fondale di pura propaganda intrecciata, il cui solo valore sociale è che noi gli crediamo; la credibilità dell’informazione è una questione in quanto la realtà se ne frega di essere credibile perché non è tenuta ad esserlo, mentre è la credibilità ad essere un punto di vista basato su una mescolanza di precedenti e di abilità di osservare e discernere e valutare, tutti quanti discutibili. Tuttavia questi non sono l’informazione stessa.

Un esempio tanto madornale quanto insospettato del cercare di predire nella sfera di cristallo sbagliata è il culto della personalità, ed infatti questo è un successo ricorrente dei manipolatori. Sulla scena, ci danno in pasto sino all’indigestione i tratti più insulsi della “personalità” del politico, sino a farci trascurare il fatto che chiunque può esercitare solo tanto potere quanto i suoi simili gli permettono di esercitare, e non di più. L’uomo forte di turno può fare tutta la faccia da duro che vuole ma, senza il sostegno di chi controlla il denaro che controlla i media, la farebbe alla tazza del suo gabinetto, non a reti unificate.
Ciò significa che qualunque politico in carica non è che l’espressione di un potere ben più vasto della sua personcina; ciò significa che quello che stiamo guardando non è che un burattino infilato sulla punta del tentacolo più piccolo della piovra; ciò significa che la sua “personalità” è o irrilevante o una mera messinscena pianificata per noi; ciò significa che è alla piovra che il politico risponde, non certo a noi, e che ancora una volta quello che c’è sul palcoscenico è lì al solo scopo di nascondere ciò che accade dietro le quinte mentre noi seguiamo entusiasticamente una falsa pista.
Quindi vediamo di non essere né ragionevoli né scorretti: non permettiamo ad elementi o burattini particolari, appariscenti, di far passare in secondo piano il denominatore comune che i manipolatori possono sfruttare dietro le nostre spalle: dal momento che giudichiamo il monaco A dall’abito del monaco B, tutto ciò che loro devono fare è individuare il monaco B, prendere il controllo del suo abito, et voilà: les jeux sont faits, rien ne va plus… per noi.

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Siamo emotivi:

Le emozioni sono una forma di energia che tende ad assorbirci. Non solo noi possiamo creare questa forma di energia, ma possiamo anche permetterle di crescere incontrollata ed inghiottirci, sino al punto in cui siamo intrappolati nel pensare che noi siamo emozione, invece di osservare che noi possiamo provare emozioni. La trappola sta nello spostamento da avere ad essere: dall’essere consapevoli di qualcosa come entità separata da noi al perdere quella consapevolezza e quella differenziazione.
Per i nostri scopi qui possiamo paragonare l’emozione ed il suo funzionamento ad un sovraccarico in un circuito elettrico: supponi che un complesso circuito elettronico, che controlla un complesso sistema, sia inondato da una scarica ad alto voltaggio, e poi immagina le conseguenze sul sistema controllato… beh, quello è l’effetto dell’emozione sul pensiero. Inoltre, un pensiero sopraffatto dall’emozione sta venendo relegato in una posizione di effetto – e sappiamo che le cose le si fanno andare bene o male in proporzione diretta a quanto si è causa o effetto.
Supponi di uscire per delle commissioni, e di imbatterti in un idiota che ti provochi per ragioni per te del tutto irrilevanti; se abbocchi alla provocazione, puoi ammucchiare tutte le ragioni che vuoi per cui l’hai fatto, ma il fatto nudo e crudo è che hai fatto ciò che qualcun altro voleva tu facessi: sei stato effetto. Se non hai abboccato, ed hai fatto in modo di mantenere o ritornare al tuo programma previsto, hai fatto ciò che volevi fare tu in primo luogo: sei stato causa. Questo è tutto.
Va benissimo usare le emozioni come benzina supplementare per avere più potenza alle ruote, fintantoché si rimane al volante. Venire sopraffatti al punto di giurare di essere stato tu per primo ad avere liberamente causato la sopraffazione e ad aver deciso il cambiamento nel tuo programma previsto per reagire è una cosa del tutto diversa. La parola reazione stessa dice tutto: una re−(trattino)−azione è un effetto e la causa è un’azione precedente. Per farla breve, quando veniamo sopraffatti da ostilità, collera, rabbia, dolore, risentimento, furtività, paura, afflizione, apatia, senso di morte e simili, da risorsa ci trasformiamo in zavorra per noi stessi ed i nostri simili, e la mossa più saggia è staccare la spina finchè non ne usciamo – una secchiata d’acqua fredda andrebbe benissimo –.

Dai difetti umanoidi al consenso manipolato, 25

Perché come sempre questa falla nel nostro scafo viene sfruttata pesantemente e sistematicamente, perciò ti invito ad osservare per conto tuo se i media dominanti usino l’incitamento emotivo come routine pianificata, l’alto voltaggio dei deliberati “spot” emozionali grossolani per scavalcare la nostra razionalità, mentre i media “non ufficiali” tendano ad usare fatti nudi e crudi e discussioni dettagliate – in un eterno appello implicito al nostro buon senso ed al nostro essere disposti a rimetterci in contatto con noi stessi. E poi ti chiedo, alla luce di tutto questo, se ritieni appropriata la diffusa indulgenza di chiamare queste falle nello scafo “essere umani”.

Siamo fasulli:

Di tanto in tanto le opinioni dovrebbero basarsi su informazioni valutate, non sui soli pregiudizi e fissazioni, ma persino quando sappiamo che le nostre informazioni potrebbero essere migliori ed essere riviste, persino se sappiamo che è probabile siano false e/o incomplete, persino se sappiamo che esistono ulteriori informazioni, informazioni che dovremmo verificare in modo da formarci un’opinione onesta, non solo ci rifiutiamo di affrontare queste ulteriori informazioni, non solo ci accontentiamo delle nostre informazioni difettose, ma dopo quel rifiuto abbiamo addirittura la sfacciataggine di continuare a diffondere le nostre opinioni difettose basate su informazioni difettose, contribuendo così alla diffusione della falsità.
Che genere di persona è una che protegge i propri paraocchi, ci si nasconde dietro, ed è fiera di indossarli, un apprendista untore? Prima di obiettare che questa etichetta sia eccessiva, pensa all’effetto combinato che possono avere milioni di tali comportamenti sommati all’apparato dei media dominanti sulla quantità di sforzo necessario ad aprire gli occhi della gente ed a tenerli aperti…
Per di più, potrebbe valere la pena di menzionare qui, giusto di sfuggita, che una delle infinite strategie di un soppressivo è proprio quella di rimanere ignorante – in modo nascostamente intenzionale – così che le sue azioni produrranno “involontariamente” danno – possibilmente “accidentalmente” proprio dove il danno sarà maggiore.

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Ed infine scaviamo in questo un po’ più a fondo ed in ampiezza, per dire che ci interessa di più asserire di avere ragione che avere ragione veramente. Se la nostra opinione dice A e la realtà dice B, noi scegliamo A. Perché la nostra priorità è salvaguardare la nostra legittimità al timone, indipendentemente dagli scogli intorno allo scafo. Al punto che per noi la realtà è la nostra opinione, non la realtà.
Come al solito, lasciamo che un impulso razionale vada fuori strada, faccia testacoda, rientri in pista contromano, e diventi così il primo fattore a compromettere il suo stesso scopo originale. Un’altra benedizione si unisce ai ranghi di quelle che rendono il lavoro dei nostri manipolatori più facile, di vasta portata, resistente alla verità e durevole. Tutto quel che devono fare è conquistare la fortezza delle nostre fissazioni preferite, e da quel momento in poi saremo i loro alleati fidati contro gli attacchi della verità e del buonsenso.

Siamo barcollanti e giriamo in tondo:

Frangar, non flectar, dice il detto latino: mi spezzo ma non mi piego. E infatti siamo volatili, incoerenti più ancora che volubili, barcollanti più ancora che consciamente ipocriti. Come fossimo stati ipnotizzati per agire come dei politici senza rendercene conto, la nostra posizione adesso è diversa da un momento fa, senza che siano intervenute ragioni plausibili nel frattempo.
Discutiamo un argomento con qualcuno ed arriviamo ad una conclusione che sembra un punto fermo e come tale un risultato, poi più avanti quel qualcuno ritorna contando sul fare ulteriori progressi da quel punto in avanti, solo per scoprire che nel frattempo siamo retrocessi ad una posizione che avevamo prima della discussione, che probabilmente non siamo nemmeno consapevoli di stare rimangiandoci la parola, e l’intera cosa è stata solo una perdita di tempo e di sudore.
Siamo il masso che il povero Sisifo è condannato a spingere su per la salita solo per vederlo rotolare giù di nuovo – per sempre.

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Più in generale, tutte le cose hanno una causa ed i nostri barcollamenti sono causati dalla nostra debolezza più dei fattori esterni, ed il fatto è che cediamo sotto pressione esterna. E sotto pressione cediamo anche inconsapevolmente. Questo ci rende controllabili, e controllarci è solo questione di: quanta pressione quanto a lungo ed in quale direzione per ottenere da noi quanto spostamento quanto a lungo e in quale direzione?
Perché i nostri spostamenti potrebbero benissimo essere temporanei, ma fintantoché servono gli scopi di coloro che li sfruttano, per loro va benissimo così. Mai sentito la “Shock and Awe Doctrine” – la “Dottrina del traumatizzare e soggiogare”? significa proprio questo: applicare ad una popolazione una pressione sufficiente abbastanza a lungo da indurla ad approvare leggi totalitarie soppressive contro sé stessa, ed una volta che sono approvate, chi se ne importa se barcolla indietro verso un barlume di consapevolezza di che cosa hanno fatto? Usare contro di essa le nuove leggi soppressive appena approvate non sarà soltanto un piacere per i soppressivi, ma anche la ragione ed il bersaglio stessi per cui hanno fatto approvare quelle leggi in primo luogo. La pressione può essere impulsiva o continua, può esserci un casus belli o una strategia della tensione: possono traumatizzarci e soggiogarci con eventi spaventosi concentrati in poco tempo, buttando giù un paio di torri gemelle a portata di mano, giusto come esempio, o con una serie di atti terroristici per anni, per mezzo di un paio di gruppi sovversivi altrettanto a portata di mano, giusto come altro esempio, ma questi sono solo dettagli tecnici; l’intero punto è che siamo inconsapevolmente inclini a lasciare che le nostre posizioni vengano spinte qua e là da una pressione esterna soppressiva verso posizioni molto meno sensate – e nel farlo anche a rimangiarci la parola data come nulla fosse.

Siamo intimiditi e in soggezione, lenti e distratti:

È stato detto che la definizione di abilità è: osservare, decidere, agire. È mia opinione che una parte chiave di questa definizione è ciò che in essa non c’è. Cose come esitare, aspettare, rimandare, ecc. non sono nè incluse nè contemplate. Il tempo per entrare in azione è solamente il tempo “tecnico” per raccogliere l’informazione, verificarla e valutarla. Ma noi impieghiamo eoni per compiere passi logici elementari e raggiungere conclusioni ovvie, elementari. Più qualcosa è osservabile, chiaro, più in fretta lo si dovrebbe afferrare ma no, noi siamo misteriosamente lenti.

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L’ovvio requisito dell’osservare è avere lì qualcuno che effettui l’osservazione; la questione potrebbe essere questa? Potrebbe darsi il caso che la nostra massa fisica sia tutta lì, ma un po’ della nostra attenzione no – ed una quantità alquanto grande, a giudicare dalla nostra velocità prossima a quella di stallo? Allora, se non nel qui ed ora, dove mai si trova sparpagliata quella nostra attenzione, se mi è consentito chiedere? In breve: dove siamo? Ma siamo anche intimiditi, ora che ci penso. Allora facciamo una seconda domanda: che cosa mai ci ha messo così in soggezione? In breve: dove ci stiamo nascondendo, e da cosa?
Alla luce di queste due domande, è come se fossimo stati presi a calci nei denti molto a lungo, finché non abbiamo imparato a nostre spese che qualsiasi cosa diciamo o decidiamo o facciamo, o persino osserviamo, o non diciamo, non decidiamo, non facciamo o non osserviamo, è comunque colpa nostra e comunque sia abbiamo torto e siamo passibili di punizione. Quindi qualsiasi cosa diciamo o non diciamo, facciamo o non facciamo, ecc., faremmo meglio ad essere circospetti, molto circospetti; dopotutto, stiamo comunque aspettando il prossimo colpo, no? E con tutta questa distrazione siamo anche alquanto inclini a commettere errori, e tutti questi non sono che sintomi di una grande quantità di soppressione ricevuta, non risolta ed accumulata, vale a dire, una grave condizione di fonte potenziale di guai.

Ed ecco perché la storia è così lenta e la civiltà impiega eoni per progredire impercettibilmente. E questo è un altro fattore che ci rende così malleabili nelle mani dei manipolatori: siamo troppo intimiditi, in soggezione, lenti e distratti per accorgerci di venire manipolati. Pensa soltanto alla quantità supplementare di danno per tutti noi per ogni ora, giorno, anno, secolo sprecati aspettando che ci svegliamo.

Siamo sonnambuli:

Pigri e mezzi addormentati, siamo inclini a scivolare in stati semi−ipnotici. Invece di padroneggiare la nostra attenzione con l’autodisciplina, sembriamo premiare quella specie di istinto cellulare la cui massima aspirazione è quello stato “a risparmio di energia” nel quale, una volta che la pancia è piena, tutto ciò che resta da fare è sbadigliare e grattarsela. Come risultato, non solo i media dominanti ma persino l’educazione sono pianificati per spingerci in quella direzione con ogni sorta di ninnananne.

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Dato che l’ipnosi richiede di scavalcare, usurpare, rubare il controllo di qualcuno prima di poterlo sfruttare, allora le ninnananne sono composte di distrarre, primo, penetrare, secondo, manipolare, terzo, e questi passi assumono innumerevoli forme, come il falsamente interessante, il rilassante, il noioso, il ripetitivo in modo sopraffacente. Un esempio di ciò sono le consuete “condizioni d’uso”, quei fiumi di clausole che tutti conosciamo e nessuno legge prima di apporre la propria firma in basso: la traversata è così lunga, in sabbie mobili così spesse e profonde, che nessuno gli sopravvive, e così si arrende a qualsiasi cosa di malizioso ci possa essere nascosto dentro.

Siamo infiammabili:

Sembriamo dei purosangue che mordono il freno mentre procedono a fatica a passo d’uomo in vicoli stretti, tortuosi ed intasati, impazienti di lanciarsi al galoppo. Insofferenti del passo instancabile, accurato e sistematico necessario per affrontare ogni frammento in modo da mettere assieme il puzzle, siamo costantemente alla ricerca di una semplificazione eccessiva e contundente da afferrare e sventolare. Diamo inizio ad una ricerca di risposte ma durante la discesa nei dettagli cediamo all’impulso a dare sfogo. Siamo come bombe ad orologeria pronte a venire innescate o da coloro che conoscono e sfruttano questo punto debole, o dai nostri stessi istinti più bassi, e come tali un rischio molto grave per i nostri simili, particolarmente quando una detonazione ne scatena molte altre in una reazione a catena, che compromette completamente qualsiasi via d’uscita.

Una cosa è la giusta quantità di esplosivo nel posto giusto nel momento giusto per far saltare la porta della gabbia; tutt’altra cosa è una quantità a caso in un posto a caso ed in un momento a caso per far crollare la volta della gabbia su tutti noi. La forza senza intelligenza è una maledizione. E una volta che i fusibili sono saltati, i nostri effetti sulla situazione sono quelli del masso che l’avvilito Sisifo guarda rotolare giù per la discesa.

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In aggiunta, questo è un altro difetto pesantemente sfruttato perché gli sfruttatori sanno qual è l’apice dell’essere infiammabili, e quello è ciò che vogliono da noi in particolare: il nostro debole per gli anatemi. Una volta che qualcuno o qualcosa è scomunicato, alla confortevole ombra del muro che erigiamo non dobbiamo prenderci più alcun disturbo.

Vale la pena menzionare qui come anatemi e scomuniche confliggano con le basi dei diritti umani e civili – o del buon senso, se è per questo.
Si dovrebbe essere messi in grado di affrontare i propri accusatori ed accuse con uguali diritti? I muri degli anatemi non si limitano a scomunicare il merito in piena vista dell’argomento, ma si premurano di scomunicare persino il semplice osare guardare l’argomento in modo da conoscere quale sia quel merito in primo luogo.
Si dovrebbe essere messi in grado di mettere liberamente in discussione chiunque e qualsiasi cosa, dato che le risposte mancano solo dove qualcuno ha qualcosa da nascondere? I muri degli anatemi si premurano di scomunicare anche il mettere in discussione le etichette in modo da conoscere il merito su cui si basano.
Per costruire una fortezza impenetrabile, non c’è come rendere immorale, colpevole e pericoloso non solo quello che viene scomunicato, ma anche le ragioni per cui lo è, l’indagare su tali ragioni, ed il mero guardare troppo in quella direzione. E indovina chi sono i bruti senz’anima che difendono quella fortezza e rendono il buon senso immorale, colpevole e pericoloso?
La storia ne ha abbastanza di cani rabbiosi con i fusibili saltati che ingrossano i ranghi ed accendono le torce delle guerre sante e dei roghi, dato che non sembriamo imparare mai nessuna lezione sull’essere fonti potenziali di guai manipolati da soppressivi che sfruttano la nostra infiammabilità.

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Siamo pecoroni:

Pensiero di gruppo, senso di appartenenza, conformismo, istinto di branco, e chi più ne ha più ne metta… il nostro giudizio e le nostre opinioni sono quelle di un pesce gregario: inchiodati al centro del banco di pesce, comunque e a prescindere. Ciò che determina le nostre valutazioni non è il baricentro della verità, ma il baricentro del banco; privilegiamo il centro del banco sul centro della verità come se temessimo i pesci predatori che si aggirano intorno al banco.

Per considerarlo nella giusta prospettiva, forse si dovrebbe esaminare non solo il termine “pensiero di gruppo”, ma anche il termine “paradosso di Abilene”…
Significativamente, prima Orwell ci ha avvisato degli orrori del “pensiero di gruppo” nel suo 1984, e quindi in seguito i ricercatori li hanno dettagliati: la pulsione al conformismo, non solo istintiva ma peggio ancora razionalizzata, produce decisioni ed azioni nocive, il sacrificio del pensiero critico, la soppressione attiva dei punti di vista alternativi e dissenzienti, l’idea di un “esterno” e l’isolamento da esso, la sovrastima delle decisioni del gruppo e la sottostima e disumanizzazione dell’”esterno”, con tutto ciò che questo può comportare.
Ma le cose possono diventare persino peggiori di così: in un aneddoto ambientato in quella città, il “paradosso di Abilene” descrive come un gruppo di persone concordi su decisioni ed azioni collettive contro sia le preferenze che gli interessi di tutti come conseguenza del fatto che, a causa di mancanza di comunicazione, tutti pensano che quelle decisioni ed azioni siano sbagliate ma sono convinti che tutti gli altri concordino con esse. A quel punto, il “pensiero di gruppo” fa il resto.

Perciò, proprio come i pesci gregari possono venire ingannati e spinti nelle reti in massa da un gioco di ombre, nello stesso modo siamo ingannati noi dai media dominanti che ci allestiscono intorno la parvenza di un banco di pesce inesistente, inventato per spingere le nostre opinioni dove vogliono loro. Infatti, i media dominanti sfruttano ciò presentando una falsa unanimità favorevole alle posizioni che vogliono farci accettare come “dominanti”.

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Abbastanza significativamente, troviamo qui su una scala globale, incessante e martellante, uno dei tratti delle persone soppressive, antisociali: le vaghe genericità usate sistematicamente per diffondere qualsiasi cosa, particolarmente quando negativa e falsa – quei “lo sanno tutti che”, “tutti pensano che” che si dimostrano perfidamente falsi tanto quanto perfidamente propagandati, quando sotto esame quel “tutti” si restringe a “il solo antisociale” –.
Senz’altro, dopo che un procedimento del genere viene eseguito abbastanza a lungo, la realtà inizia ad assomigliare alla parvenza propagandata, ma solo perché la realtà è fatta di individui, martellati individualmente abbastanza a lungo con la inesistente “unanimità dominante” voluta, finchè escono, si incontrano e scambiano la manipolazione per unanimità. A quel punto il gioco è fatto, tutti i pesci gregari serrano i ranghi, e il banco di pesce vero diventa quello voluto e costruito. E noi sappiamo che i pecoroni – anzi i lemming – hanno un’inclinazione peculiare, quando si tratta di pensiero di gruppo, conformismo, istinto di branco: quella di emulare, fra tutti, quelli che si dirigono verso lo stagno per annegarcisi.

È stato detto che da un lato la comprensione è composta di affinità, accordo e comunicazione, ciascuno dei quali spinge gli altri due, e dall’altro che gli individui senzienti sono diversi mentre le loro irrazionalità sono uguali. Di conseguenza, se lasciamo noi stessi incustoditi, l’accordo fra le nostre irrazionalità è totalmente automatico, spontaneo, inconsapevole, ma nondimeno sopraffacente, mentre l’accordo fra i nostri sé senzienti resta indietro e viene sopraffatto. Questo significa che rimanere senzienti, razionali e comprenderci a vicenda è come andare in bicicletta: o pedaliamo per tenere a galla sia la nostra individualità senziente che la nostra comprensione reciproca attraverso affinità, accordo e comunicazione fra noi, o cadiamo nelle infinite trappole fangose disseminate lungo le nostre strade.

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Siamo associativi:

Ahimè non nel senso di “l’unione fa la forza”, ma piuttosto in quello di “fare di tutte le erbe un fascio” o, per essere più precisi, “errore di uno, colpa di tutti”, “tutto lo stesso”. È stato detto che la sanità mentale è la capacità di discernere, di rilevare differenze e similitudini, e la pazzia è la propensione al contrario, perciò diamo una breve occhiata più da vicino a che cosa sia quel “contrario”.

Per cominciare, stiamo parlando di gradazioni: diciamo che ci venga domandato quali differenze ci siano fra i pezzi che escono da uno stampo; una gradazione è rispondere il loro colore quando questo sia il caso; una gradazione superiore è rispondere i loro difetti di fabbricazione individuali; una gradazione ancora superiore è rispondere che, anche se fossero tutti dello stesso colore e senza difetti, comunque non sono lo stesso pezzo, sono fatti di molecole differenti ed occupano uno spazio differente.
In secondo luogo, in cosa consistono queste “gradazioni” quando si procede in direzione opposta? Si fa presto a dire “gli uomini/le donne sono tutti uguali”, ma la persona che lo dice cosa pensa, esattamente? È un interessante esercizio concepire, seguire come poco alla volta, un passo dopo l’altro, cose separate diventano la stessa cosa, la stessissima cosa, agli occhi dell’osservatore. Dapprima, è quando proprio si sbotta che si pensa fra sé che “gli uomini/le donne sono tutti uguali”, ma è solo un momento silenzioso che rientra subito, e si è del tutto consapevoli che quell’idea è falsa, estranea ed il prodotto di uno stato alterato di idrofobia. Poi, man mano che uno accumula sbotto dopo sbotto, lentamente i bulloni si allentano, lentamente le perdite compaiono e peggiorano. Finchè non si è più consapevoli di venire temporaneamente sopraffatti, per l’ottima ragione che quello stato è ormai diventato permanente, e quell’idea non è più sentita come estranea; al contrario, quello che una volta si diceva per scherzo, ora lo si dice con una tremenda serietà: adesso “gli uomini/le donne sono tutti uguali” per davvero ai propri occhi.

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È un’esperienza tremenda tuffarsi lucidamente in uno stato simile, ed osservare come laggiù cose separate possano diventare davvero la stessa cosa; è stato detto che noi siamo comprensione e perciò troviamo particolarmente difficile concepire stati di comprensione ridotta, ma quello è esattamente quello che stiamo affrontando qui, uno stato mentale in cui si può effettivamente considerare che, vale la pena di ripeterlo, cose diverse sono la stessa cosa – non simili, nota – la STESSA cosa: la cosa A non è che SOMIGLI soltanto alla cosa B; ora lo È. Un corto circuito mentale etichettato colloquialmente A=A, dove il segno di “uguale” diventa sempre più un segno “È” fra elementi una volta distinti che ora divengono sempre più la STESSA cosa: A=A, A=A=A, A=A=A=A, e così via in uno smottamento progressivo della ragione in un pozzo senza fondo di oscurità.

In precedenza abbiamo discusso come lo spostamento di personalità da vittima ad oppressore sigilli il coperchio della trappola della fonte potenziale di guai, ricordi? Bene, qui hai uno sguardo ravvicinato a come ha luogo anche quello. E ti chiedo di fare una pausa e ponderarlo per un momento. È uno stato di una tale ridotta comprensione, mentre invece noi siamo in primo luogo comprensione, che quando lo si osserva esso tende quasi a sollevarsi. Ma nondimeno esiste, e quanta gente assorbe, e per quanta parte delle loro vite, e con quante conseguenze sulle vite di noi tutti?

Già, perché quando lo osservi dal punto di vista della manipolazione, vedi quanto facile sia sfruttare la nostra specie di propensione a fare di ogni erba un fascio, quella sorta di proprietà transitiva del nostro giudizio: che tu voglia demonizzare o santificare qualcuno o qualcosa ai nostri occhi, tutto quel che devi fare mostrarcelo associato a qualcun altro o qualcos’altro di già per noi demoniaco o santo, insistere abbastanza a lungo e forte, e la connotazione negativa o positiva trasmigrerà ineluttabilmente nel bersaglio, aprendo la strada all’insorgere dei pregiudizi, degli anatemi, ed alla fine del taglio della comunicazione che ci impedirà di ispezionare che cosa c’è realmente lì in primo luogo.

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La pubblicità e la propaganda sono una fonte di esempi illimitata: quando vogliono venderti un’auto, fingono di stare vendendoti un intero mondo desiderabile intorno ad essa, il che è totalmente irreale: quando vogliono screditare un oppositore, lo accostano a qualcosa di politicamente scorretto, che potrebbe essere altrettanto irreale, o comunque in realtà totalmente estraneo.
Senz’altro, metafore, parabole ed altre forme di associazione apparentemente sono usate solo per conferire maggiore impatto a qualcosa associandolo a qualcos’altro più familiare al pubblico bersaglio: ma persino nella retorica c’è più di quanto sembri riguardo al nostro essere associativi: “bianco” diventa “bianco come la neve”, “freddo” “freddo come il ghiaccio”, “bollente” “bollente come l’inferno”, “quella cosa” “quel diavolo di cosa”, lo “smarrito” diventa “pecorella smarrita” ed il “soccorritore” “buon pastore”, e così via.
Beh, ciò di cui non siamo molto consapevoli è che questi non sono solo dei semplici rafforzativi: un po’ di quello che significano per noi penetra in ciò cui sono associati. Quindi, per noi, quel bianco saprà di neve, quel freddo saprà di ghiaccio, quel caldo saprà di inferno, quella cosa sarà in qualche modo infernale, il salvataggio sottintenderà sottomissione, e così via.

Ci specializziamo nel fondere il monaco ed il suo abito, il dato con la sua presentazione, e poi nel giudicare il monaco dall’abito, persuasi che la presentazione del dato sia il dato. Dici che è troppo palese per funzionare? Ricordati che siamo quantitativi: diamogli una seconda occhiata dopo che ci abbiano lavorato a sufficienza. Quindi non è che quel che non va nell’essere associativi è eccedere nel farlo: non c’è un livello accettabile di essere associativi, è una trappola in sè. È fare il gioco dei nostri manipolatori.

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Siamo miopi:

La mappa della miopia ha almeno due dimensioni, che potremmo chiamare larghezza e lunghezza: la larghezza è il collegare elementi posti tutti nel presente, ma magari appartenenti a contesti differenti, mentre la lunghezza è il collegare elementi appartenenti a tempi diversi; qualsiasi ulteriore possibile dimensione potrebbe mescolare queste come pure abbracciare qualsiasi tipo di apparente estraneità fra aree e fatti. Tutte richiedono conoscenza ed apertura mentale per raccogliere i pezzi e metterli insieme, e così tutti coloro che mirano a qualsiasi grado di 1984 di Orwell prendono di mira la nostra capacità di occuparci di quelle dimensioni: la nostra disponibilità, curiosità, indipendenza, iniziativa, intelligenza, sistematicità, spirito critico, conoscenza, memoria storica, ecc. In altre parole, la nostra capacità di guardare al di là. E noi siamo più che compiacenti: indotto o spontaneo che sia, il modo in cui non riusciamo a mettere a fuoco più in là di un palmo dal nostro naso, e quindi non siamo all’altezza dei nostri doveri in quanto membri dell’umanità, è addirittura una matriosca, dove quella interna è alla radice di quella esterna successiva.

Miopi quanto alla portata:
Ci è stato insegnato che la radiosità del nostro futuro si fonda sul fatto che tutti noi ci concentriamo sul diventare degli specialisti. Cosa questa abbastanza interessante, questo stesso concetto di specializzazione viene enfatizzato ad entrambi gli estremi: sia gli individui che le nazioni devono specializzarsi nelle poche cose che fanno meglio, e meno sono queste cose, meglio è.
Tratteremo lo scopo di questo per le nazioni più avanti; qui, per quanto riguarda l’individuo, osserviamo che è quando ricomponi il puzzle che vedi l’immagine e la comprendi, che per ricomporlo devi avere i pezzi, che per averli devi scovarli, e che per scovarli devi essere consapevole che là fuori ci sono dei pezzi da ricomporre in primo luogo.

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Il risultato voluto dell’educazione dominante è meno valutazione critica e più accettazione passiva, è insegnarti a dimenticare la tua capacità di mettere assieme i pezzi ed a concentrarti sul diventare un miope specialista che si occupa unicamente del tuo pezzo, totalmente inconsapevole delle sue relazioni con il resto del puzzle. Non più un libero, autonomo pensatore, ricercatore, osservatore, valutatore; ora un mero esecutore provvidenzialmente dimentico dell’esistenza dei puzzle.
Un’ulteriore “conveniente” sfaccettatura di quest’oblio è attraverso la polverizzazione della responsabilità: quando il commettere un crimine, legalizzato o no che sia, è la decisione autonoma di un singolo o pochi individui, affrontare la propria coscienza e responsabilità è una questione difficilmente evitabile; ma quando quella decisione viene spezzettata in un numero abbastanza alto di decisioni abbastanza piccole e soprattutto miopi, l'occultamento del puzzle renderà possibile commettere crimini senza che la coscienza e la responsabilità se ne accorgano.
Un’altra sfaccettatura “conveniente” la si può vedere di tanto in tanto negli elogi dell’obbedienza cieca, enfatizzati in particolare su coloro che sono strumentali nell’agire da strumenti nelle mani dei pochi per opprimere i molti, quali coloro che indossano qualche tipo di uniforme: essi vengono educati ad essere orgogliosi dei paraocchi, del fidarsi e servire con una conoscenza limitata, così che quando serve possano venire portati a “proteggere” la gente sparandole, ed in perfetta buona fede.
Ma quando c’è in gioco la sopravvivenza di tutti noi, non esiste alcun diritto alla stupidità, non esiste alcun diritto all’ignoranza, non esiste alcun diritto al non affrontare. Non c’è nessuna scusa, nessun eludere, la verità è fondamentalmente semplice e non hai alcun posto dove nasconderti, niente dietro cui nasconderti: a chi stai essendo leale? Ad un cricca che sopprime il resto di noi, o a tutti noi?

Difficile sconfiggere la miopia sulla portata quand’essa non è che la matriosca esterna sostenuta da quelle al suo interno.

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Miopi quanto all’etica:
Se non riusciamo a vedere che c’è una sola sopravvivenza ed è la sopravvivenza di tutti e tutto, siamo troppo egoisti per sopravvivere – o troppo miopi, il che è un sinonimo –. Alcuni potrebbero pensare di vivere una volta sola, e così la sola cosa che conti è concedersi tutto ciò su cui riescono a mettere le mani nel loro tempo e spazio limitato, e al diavolo tutti gli altri e tutto il resto: quando la vita presenterà il conto, loro saranno comunque polvere morta. Beh, il punto non è se viviamo una volta sola o di più: è dal punto di vista della comunità che questa gente non è all’altezza dei requisiti minimi. Questo vale ovviamente anche per la variante idiota dell'apprendista stregone: in aggiunta all'avere intenzioni soppressive ed all'essere PTS delle intenzioni soppressive di qualcun altro, c'è anche l'essere schiettamente incoscienti ed irresponsabili; senz'altro giocare col fuoco senza un barlume di con che cosa si sta giocando non è all’altezza di tali requisiti minimi.

E vale anche la pena di evidenziare una sfaccettatura specifica della nostra miopia quanto all’etica, a causa della gravità delle sue conseguenze. Quando non ci rendiamo conto che la vita è uno sforzo di gruppo e che la sola sopravvivenza è quella di tutto e tutti, giudichiamo il successo delle persone dal loro “successo” individuale, con cui erroneamente intendiamo il differenziale fra la loro posizione sociale e quella dei loro simili: più in alto si trovano al di sopra degli altri, maggiore il loro “successo”. Non c’è bisogno di dire che, se la meta è quella, uno potrebbe decidere di perseguirla spingendo gli altri giù, vero? Inoltre, dato che mediamente un soppressivo è più egoista degli altri, e tende anche a diffondere idee soppressive come quella per cui il “successo” consiste proprio in quel differenziale, come risultato i soppressivi tendono a raggiungere il differenziale più elevato, e noi finiamo per classificare come di maggiore “successo” proprio quelle persone soppressive alla radice delle nostre avversità. Quando si dice scavarsi la fossa da soli da brave fonti potenziali di guai…

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Che le persone abbiano un lato luminoso ed uno oscuro si potrebbe considerare un’approssimazione del fatto che hanno una gamma di possibili comportamenti ed all’interno di quella gamma possono venire manipolate. Quindi l’egoismo è tanto potenzialmente possibile quanto l’onestà, ma viene coltivato e sfruttato molto più sistematicamente, e raggiunge facilmente un punto di autocombustione, dove l’egoismo produce isolamento, che a sua volta produce egoismo, che a sua volta produce isolamento, che… devo aggiungere altro?
E l’egoismo è sinonimo di miopia perché l’uno sfocia facilmente nell’altro: quando non ce ne frega niente degli altri è facile concentrarsi solo sui pezzi del puzzle nelle proprie immediate vicinanze e solo per sfruttarli, e di badare ai puzzle solo quel tanto da essere in grado di rubare e imbrogliare. Puoi già vederlo in scala ridotta, “innocente”, quando una vita, una vittima a mille miglia di distanza è di valore infinitamente inferiore ad una della porta accanto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore, non è così?

Difficile sfuggire alla miopia riguardo alla portata quando si è miopi nell’etica.

Miopi quanto a consapevolezza:
Quando ci guardiamo allo specchio, c’è qualcuno lì? Quando ci chiediamo chi siamo, dove stiamo andando, e perché, di chi è la risposta che riceviamo? La nostra, o quella di qualche strano macchinario cui abbiamo ceduto noi stessi? Siamo anche solo capaci di trascinarci davanti ad uno specchio e porci queste domande? Se fossimo scivolati, inavvertitamente oppure no, in un’armatura fatta di personalità che non sono la nostra, saremmo in grado di rendercene conto? Brandelli pasticciati, raffazzonati e casuali di personalità che non sono la nostra, messi assieme nel modo meno consapevole, ed anche per le ragioni meno consapevoli, che non sono neanche lontanamente, neanche minimamente, che non sono affatto "noi", per quanto possiamo essere convinti che lo siano.

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In altre parole, siamo capaci di essere un metro dietro la nostra testa e guardare l’intera cosa – la scena e gli elementi in essa, noi stessi compresi – dall’esterno e dall’alto? Le personalità artificiali sono più egoiste delle persone. Perché lì non c’è nessuno. Solo macchinari. Nessuno per distinguere il giusto dallo sbagliato.

Difficile sfuggire alla miopia nell’etica quando miopi nella consapevolezza. Difficile sentire, difficile venire raggiunti, difficile venire toccati, quando non c’è nessuno, lì.

Siamo squilibrati:

Non riusciamo a classificare le cose. È stato detto che valutare è paragonare: caratteristiche, valori, importanza possono solo essere relativi, si possono determinare solo a fronte di termini di paragone. Se provi ad immaginare l’assenza di qualsiasi altro elemento a cui paragonare qualcosa, probabilmente lo troverai ben difficile; e probabilmente questo dimostra quanto il paragonare sia intrinseco al – se non sinonimo del – valutare. La valutazione assegna valori, ed i valori non sono che gradazioni di idoneità ad uno scopo. Effettivamente, le cose vengono paragonate ad altre cose ed a fronte di scopi, e sia le altre cose che gli scopi si possono considerare termini di paragone. Da questo deriva che i valori sono relativi: una cosa è più o meno importante quando paragonata ad un’altra cosa, e quando considerata riguardo ad uno scopo. Ed anche uno scopo è più o meno importante di un altro scopo quando considerato a fronte di uno scopo più basilare. Così come un ordine di grandezza è più vasto o più piccolo di un altro ordine di grandezza.
Tutto questo alla fine risale al fondamento dell’etica: sopravvivenza di tutto e tutti nelle migliori condizioni possibili per un tempo il più lungo possibile. Allora l’etica è una questione di gradazioni, dove “fare del proprio meglio” di fatto significa accertare e fare quello che è relativamente meglio fra tutti i possibili percorsi di azione.
Il nostro difetto qui è il violare l’importanza relativa: non riusciamo a vedere, o non vogliamo vedere, la reale gerarchia etica fra gli scopi e fra le cose, così privilegiamo l’insignificante sul vitale, ed abbiamo il coraggio di lucidare un paio di oblò mentre lasciamo che la ruggine corroda l’intero scafo. È senz’altro un esercizio salutare quello del riconoscere le infinite forme e casi in cui noi indulgiamo in questo ed in cui i nostri manipolatori indulgono nel creare e sfruttare tali forme e casi.

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Ed un esempio affatto emblematico del nostro essere squilibrati è il “bottone dell’importanza di sé”: quando il nostro scopo si sposta dal fare un buon lavoro al sentirsi importanti.
Un “bottone” è un punto di effetto nel nostro comportamento: qualcosa o qualcuno fa A – azione, conseguentemente noi facciamo B – re−azione; è come se avessimo un bottone: ogni volta che A preme quel bottone noi eseguiamo B; indipendentemente da quante volte ci venga premuto il bottone, una, dieci o un miliardo, ogni volta l’effetto è lo stesso: eseguiamo B e nient’altro che B. La quintessenza dell’ipnosi. Se mai ci fosse della consapevolezza nel bottone dell’importanza di sé, sarebbe “equivocare la causa”; se in esso ci fosse del pensiero degno di questo nome, sarebbe l’idea che il modo di essere causa è inserire un’alterazione lungo la linea a prescindere; ma non si tratta affatto di consapevolezza e pensiero quando si tratta di importanza di sé.
Ad uno sguardo di sfuggita sembrerebbe solo una questione di “Fresco di nomina? Fatti sentire!”, quando il nuovo incaricato rivoluziona tutto perché il suo scopo è solamente far sentire il suo peso, ma quella è solo la punta dell’iceberg; in realtà questo bottone abbraccia persino due direzioni opposte: egocentrismo e abnegazione.
Per l’egocentrico, mostrare la propria esistenza ha la priorità massima ed il modo di riuscirci è inserire qualcosa di personale, così il fatto che l’elemento inserito sia differente e quindi riconoscibile è senz’altro più importante del fatto che abbia un senso e quindi sia necessario ed utile invece che arbitrario e dannoso. Simmetricamente, per chi è votato all’abnegazione eliminare sé stessi come fattore dalla scena e dall’equazione ha la priorità massima ed il modo di riuscirci è appunto negare sé stessi, così che il farlo a qualsiasi costo è più importante di qualsiasi danno causato dal non alzarsi in piedi quando necessario.
In entrambi i casi l’importanza di sé è uscita dai binari e dalla proporzione con la situazione: il fiume sta per superare il livello di guardia e c’è bisogno di tutti – velocemente, per favore – per aiutare ad ammucchiare i sacchi di sabbia sull’argine; quaggiù puoi riconoscere l’egocentrico che blocca l’azione perché qualcun altro ha deciso dove piazzare i sacchi di sabbia, mentre laggiù puoi riconoscere il votato all’abnegazione che blocca l’azione perché si rifiuta di decidere come piazzarli.

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La vita è uno sforzo di gruppo da parte di una rete di nodi vivi; perché lo sforzo abbia successo, ciascun nodo deve contribuire con quello che serve. Questo significa originare qualcosa di buono quando manca e ce n’è bisogno, come pure trasmettere quello che già c’è ed è buono invece di alterarlo o fermarlo, come pure fermare quello che è cattivo invece di propagarlo; tutto ciò richiede che ciascun nodo sia pienamente consapevole di qual è il vero posto dell’importanza di sé, e che ciascun nodo la eserciti di conseguenza. Detto questo, lascerò a te l’osservare esempi reali di con quanto successo l’importanza di sé, una volta che faccia corto circuito e diventi uno dei suoi “bottoni” opposti, egocentrismo e abnegazione, possa venire sfruttata.

Siamo blasfemi – in particolare contro noi stessi:

La blasfemia consiste nell’indebolire tramite degradazione, nel facilitare la distruzione con il declassamento. Il termine ed il suo esempio migliore provengono dalla sfera religiosa: la blasfemia consiste nello svalutare un’entità superiore facendola passare per un’entità inferiore, come un dio come idolo, o uno spirito come cervello. L’una è un’entità superiore in quanto ha una natura e degli attributi metafisici (il prefisso “meta” significa oltre), spirituali (spirituale significa, fra le altre cose, non soggetto a ed oltre i limiti materiali), mentre l’altra è un’entità materiale che porta con sé questioni terrene strettamente vincolate entro quei limiti. Un dio o uno spirito è un essere, un idolo o un cervello è una cosa, ed un essere ed i suoi attributi sono superiori ad una cosa ed ai suoi attributi. Da qui la blasfemia, e la sua gravità sta nella mancanza di rispetto, nell’inganno, ed anche nelle loro vaste e gravi conseguenze. Ma la gravità delle conseguenze di quello che chiamiamo blasfemia ed inganno non è limitata alla sfera religiosa.

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Ci è stato detto ed insegnato ripetutamente, da predecessori più saggi, che inesorabilmente iniziamo a curarci delle questioni giusto un filo troppo tardi, e sono saggi a causa dell’effetto valanga: tanto più permetti ad una minaccia di crescere, tanto più forte essa diventa e più difficile da sconfiggere. È stato detto che è meglio fermare i cattivi quando sono ancora piccoli… ecco dove sta l’importanza della nostra prontezza, risolutezza, determinazione contrapposta al nostro ritardo. E senz’altro quei precursori si riferivano in primo luogo alla nostra libertà: ci curiamo della nostra libertà – sempre che ce ne curiamo – quando è troppo tardi, quando è stata già rubata quasi tutta e recuperarla è un’impresa quasi disperata. Come mai questo ritardo?

Abbiamo una spregevole inclinazione a scimmiottare ed adottare le leggi dell’universo fisico; siamo entità superiori con una propensione all’auto−degradazione del comportarci come entità inferiori. E questo non è solo blasfemo, ma anche distruttivo. È blasfemo perché non siamo entità materiali – non quando esercitiamo le nostre facoltà, come minimo del minimo – quindi, quando ci declassiamo al livello inferiore delle cose materiali, questo è ciò che facciamo. Ma che dire delle conseguenze?
Nell’universo fisico c’è una legge che chiamiamo “la Legge della Domanda e dell’Offerta”, secondo la quale il valore di qualcosa è determinato da quanto scarso o abbondante è quel qualcosa. Citerò solo di passaggio che quando la nostra inclinazione sostituisce quel “qualcosa” con “qualcuno” apriamo la strada ad un fiume senza fondo di orrori, e lascerò a te l’elencare tanti esempi quanti ne puoi individuare di noi che agiamo su queste basi, ma ti invito ad osservare cosa accade quando si tratta di libertà: dato che valutiamo la libertà sulla base della sua abbondanza o scarsità, ecco che ciclicamente la storia si ripete, e quando avvertiamo che abbiamo un sacco di libertà – indipendentemente dal fatto che sia vera o già meramente messa in scena – ne facciamo crollare il valore e quindi continuiamo a trascurare la sequenza senza fine di restrizioni e perdite di libertà “minori”, così che quando alla fine ci svegliamo siamo ormai schiavi da molto tempo.

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E smaniamo per scaricare la responsabilità.

Che è un punto di per sé, penultimo ma tutt’altro che il meno importante. Ho iniziato menzionando come “buona norma” l’assumere il punto di vista della completa responsabilità comunque sia; ora è appropriato menzionare la nostra inclinazione letale alla “cattiva pratica” esattamente opposta: “non è un errore mio”, “non mi riguarda”, “non è mia responsabilità”, “chi si fa gli affari propri campa cent’anni”, quando al contrario qualsiasi cosa, ovunque ed in qualsiasi momento, riguarda anche te. Persino quando ce la prendiamo con ogni sorta di politici, funzionari e dipendenti pubblici il cui scopo fondamentale è rovesciare chi risponde a chi, e trasformare i cittadini da loro padroni e datori di lavoro in loro schiavi e mucche da mungere, c’è più di un indizio di questo: sicuro, quando si tratta di assumersi responsabilità potremmo essere costretti a scendere a patti con le circostanze, ma stiamo nondimeno domandandoci cosa possiamo effettivamente fare, o le nostre lamentele sono un mero rituale per esorcizzare proprio questa domanda?
La nostra insaziabile brama di irresponsabilità si ramifica persino nella materia inanimata; e le sue conseguenze perniciose sono proprio come la materia inanimata: praticamente illimitate.
Un caso esemplare è la demonizzazione della plastica attualmente in voga: la plastica in sé viene incolpata per i problemi ambientali ad essa collegati, quindi la “soluzione” accolta avidamente dagli umanoidi è liberarsi della plastica. La plastica è probabilmente il primo materiale originale su larga scala creato dall’Uomo; i suoi cosiddetti difetti sono in realtà proprio le sue virtù per le quali è stata creata: un sacchetto di plastica del peso di cinque grammi permette di tenere assieme e trasportare agevolmente cinque chili di carico sfuso con una mano liberando nel frattempo l’altra mano, stagno, che non intacca il carico, non ne è intaccato, rimane tale indefinitamente, ed è riciclabile facilmente, completamente ed in modo efficiente.

Dai difetti umanoidi al consenso manipolato, 45

È ben noto che è la mano ad usare lo strumento e non lo strumento che si usa da solo, ma guai a colui che osi puntare il dito contro la mano che brama lo sfuggire alla responsabilità, e benedetto colui che faccia il suo gioco dando la colpa all’oggetto innocente. Il consenso si costruisce inducendo ad abbandonare gli strumenti di valore a furia di incolparli piuttosto che chiamare le mani ad affrontare le loro responsabilità.
Un secondo caso esemplare mostra sino che punto possono arrivare le conseguenze dello spostare la colpa dalla mano irresponsabile allo strumento innocente: le armi. Fà il gioco dell’irresponsabilità a sufficienza, ed il risultato sono cittadini inermi alla mercè dei loro nemici, all’interno o al di fuori della legge che siano. Thomas Jefferson presumibilmente ha detto che quando il governo teme il popolo hai libertà, e quando il popolo teme il governo hai tirannia, e Thomas Paine ha detto che è compito del patriota proteggere il suo paese dal suo governo; ti invito ad osservare come i governi esproprino i cittadini della sovranità, e come questo assuma la forma del monopolio dell’uso della forza. Ebbene, nella misura in cui il popolo è convinto che le armi siano qualcosa di intrinsecamente cattivo da cui stare alla larga, e che al governo spetti intrinsecamente il monopolio dell’uso della forza, in quella misura chiunque si impadronisca del governo avrà la strada spianata per ridurci in schiavitù ed espropriarci con il minimo “disturbo”.

Ci comportiamo come la preda inseguita dai predatori, e quando si fugge si è effetto: una fuga può imboccare solo le strade non ancora sbarrate dagli inseguitori, e un momento dopo l’altro gli inseguitori guadagnano terreno e la preda lo perde, centimetro per centimetro lo spazio di manovra si stringe, e ci ritroviamo sempre più intrappolati in situazioni e condizioni a fondo cieco.
Ed i predatori che ci inseguono sono tutte le responsabilità che non ci siamo assunti.
Sicuro, può essere dura assumersi la responsabilità. Se non lo fosse, probabilmente ce l’assumeremmo più spesso e facilmente. Ma se almeno fosse solo una questione di ogni singola responsabilità trascurata… purtroppo il bello deve ancora venire.

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Prima è meglio è, prima che le cose si facciamo brutte sul serio, non è una cosa nuova, dopo tutto, no? Ma quanto seriamente brutte? Le responsabilità trascurate paiono accumularsi in modo esponenziale: più sono, più il loro peso totale supera la somma dei loro pesi individuali. Ed ognuna di loro non è necessariamente seria, e sfuggire ad ognuna di esse dà un apparente sollievo – anche se fondamentalmente sappiamo cosa sta accadendo: stiamo venendo meno ai nostri doveri.
E nel frattempo è come la ruota che scava un solco più profondo nel sentiero: venirne fuori diventa dieci volte più difficile ad ogni passaggio. Sicuro, può essere dura assumersi la responsabilità, ma le conseguenze del non farlo sono persino peggiori, e lo si potrebbe addirittura vedere, se non fosse per l’apatia che lo nasconde…

Quindi faremo meglio a sottolineare il punto di vista della completa responsabilità dicendo a noi stessi che “Tutti, tutto, dovunque e in qualsiasi momento mi riguardano, e farò meglio a chiedermi sempre: di quale parte del problema potrei essere responsabile? Così da capire meglio – cosa persino più importante – come posso fare qualcosa in proposito?”

Ed infine drammatizziamo.

Questa potrebbe essere una degna conclusione per questa lista raffazzonata, in quanto i difetti precedenti hanno le radici qui.
La definizione di drammatizzare qui è differente da quelle che conosciamo: non significa mettere in scena né farne un dramma. Significa riprodurre. Come un registratore, riproduciamo una registrazione. Ci premono un bottone, e lo facciamo di nuovo.
Indipendentemente da quanto profondamente e remotamente sia sepolta nel nostro passato e nella nostra mente la registrazione che riproduciamo, nella sua semplicità consiste in questo: noi una volta abbiamo preso a calci nei denti o siamo stati presi a calci nei denti, ed ora lo riproduciamo e lo facciamo di nuovo.
Il punto è: non stiamo consapevolmente selezionando qualcosa dall’esperienza e poi rielaborandolo alla luce del presente, oh no. Non stiamo essendo causa; stiamo essendo effetto: qualcosa seleziona la registrazione da riprodurre e, proprio come un registratore, ogni volta che il bottone viene premuto, affatto inconsapevoli di alcunchè, riproduciamo semplicemente la registrazione. Un tipo di registrazione che si dà il caso detti il nostro comportamento, atteggiamento, pensieri, idee, decisioni…

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Il risultato è molto simile a quello che ci fa chiamare PTS un PTS: i guai risultanti. Anche qui, amplifichiamo e ritrasmettiamo il torto, invece di riconoscerlo e fermarlo.
E così il torto sopravvive e persino cresce florido, tramandato di mano in mano, di persona in persona, di generazione in generazione, di civiltà in civiltà, per nostro danno e vergogna.
Come distingui il giusto dallo sbagliato? Come fai a distinguere cosa sia sano razionale, costruttivo da quello che è folle, irrazionale, distruttivo? Beh, etica: produce la condizione migliore e più durevole per il maggior numero di entità coinvolte? E lo fa per davvero?

A proposito, un caso interessante della combinazione di due dei nostri difetti umanoidi, essere quantitativi e drammatizzare, è chiamato: drammatizzare un non poter avere. La definizione di avere, come verbo e come sostantivo derivato, qui è: essere in grado di raggiungere; il raggiungere non è impedito. Per esempio, se puoi guardare qualcosa o qualcuno che ti piace, e non ti è impedito farlo, beh, tu hai quel qualcosa o quel qualcuno. Non hai bisogno di trascinartelo dietro: se puoi averlo nel tuo universo, lo hai.
Detto questo, puoi osservare come alcuni indulgano in questa particolare drammatizzazione che sfrutta l’inclinazione della vittima ad essere quantitativa: la persona che drammatizza comunica, ancora ed ancora, alla persona bersaglio il messaggio “Questo è desiderabile, desideralo!” Sinchè come risultato, essendo quantitativo, il bersagio reagisce a quella persistenza salendo lungo una scala di atteggiamenti dalla totale inconsapevolezza iniziale di "questo" alla bramosia finale di "questo".
Ed una volta che il bersaglio è cotto a puntino, che cosa gli dice la persona che drammatizza? “Lo brami adesso, vero? Beh, non lo puoi avere.” Vale a dire, il solo ed unico scopo in primo luogo per creare una bramosia per "questo" è negare "questo". Creare un desiderio solamente per frustrarlo.
È degno di nota quanto spesso quel "questo" sia sé stessi: quanto certa gente s’impegni per sedurre al solo scopo di: “Mi brami adesso, vero? Beh, non mi puoi avere.”
Comunque, anche se questa drammatizzazione è particolarmente appariscente nel campo delle relazioni, non è certo limitata ad esso; al contrario, è un esercizio interessante rilevarla all’opera in qualsiasi area della vita e del conportamento umano.

È sana, razionale, costruttiva la drammatizzazione? Ma quanta ce n’è al mondo, e quanto il danno?

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La verità se ne frega di essere credibile perchè per esistere non ha bisogno che noi le crediamo; la verità non ha bisogno di noi, siamo noi ad avere bisogno di lei per sopravvivere, dal momento che la verità è il modo in cui stanno le cose e per sopravvivere bisogna risolvere i problemi reali ed esatti, non quelli falsi e sbagliati.
È stato detto che le falsità, dal momento che la verità le fa svanire, per sopravvivere combattono attivamente la verità; e che ogni cosa storta, sbagliata, che non è come dovrebbe e produce soccombere invece che sopravvivenza è tale e persiste perchè contiene della falsità.
E noi, addirittura ancor prima di essere allergici all'attitudine necessaria alla ricerca della verità, siamo allergici alla verità stessa; appena ne sentiamo l'odore reagiamo come animali in pericolo: se possiamo ne fuggiamo di corsa e se non possiamo la combattiamo sino alla morte.
Conseguentemente, se non prendiamo noi stessi per la collottola, quando e dove chi almeno ci prova avrebbe bisogno di noi ed il nostro aiuto o la sua mancanza fa la differenza fra vivere e morire, siamo esposti a venire considerati per quello che siamo: vincoli anzichè risorse, parte del problema che non vuole essere parte della soluzione, traditori del nostro posto nel mondo.