“Vincente” e “perdente”, la faida per contagio della miseria umana

Nelle abiette sabbie mobili della cecità alla cane−mangia−cane al di sotto della nostra vigilanza, o mangi o vieni mangiato: quando mangi vinci, quando sei mangiato perdi. Quindi quando la propria presa su di sé si allenta, ci sono solo due tipi di “personalità”: il vincitore e lo sconfitto, o, più precisamente, il carnefice e la vittima. E al di là del crepuscolo di sé il solo modo di sfuggire l’essere una vittima è essere un carnefice.

Una volta noto e chiaro di cosa si tratti, molte sfaccettature dei comportamenti della personalità “vincente” e di quella “perdente” divengono rilevabili ed analizzabili, come pure le loro conseguenze. Come pure la loro causa. I venditori lasciano cadere “accidentalmente” la penna davanti al potenziale acquirente: quale delle due personalità pensi si chinerà impulsivamente a raccogliergliela? Se nel barattolo c’è un biscotto rotto, chi lo prenderà e chi lo disdegnerà? Lo stesso impulso di sollecitudine e composizione che rende la vita possibile, al di sotto della nostra vigilanza diventa una fragilità. La personalità “vincente” passa e sporca come suo diritto divino; la personalità “perdente” passa e pulisce lo sporco lasciato dalla “vincente” come un atto dovuto: in ogni caso, qual è quella socialmente di valore? In meccanica, fra metallo e metallo serve la gomma: fra due parti metalliche si interpone una guarnizione di gomma, e dopo che essa ha garantito la tenuta, smorzato le vibrazioni, evitato guasti, guai e incidenti, e persino evitato usura e danni a quelle stesse parti metalliche, sopportando nel frattempo temperature e pressioni elevate – e tutto questo grazie al fatto di essere fatta di un materiale sì robusto, ma anche resistente e soprattutto flessibile – per tutto ringraziamento la si getta nella spazzatura.

Ma che la personalità “vincente” sia quella che causa i danni e la personalità “perdente” sia quella che risolve i problemi è del tutto irrilevante; di fronte agli altri, il punto e la differenza chiave sono: chi è tenuto a scusarsi con chi per la propria stessa esistenza? Sulle spalle di chi grava come un peccato originale il fardello dell’essere in torto a prescindere?

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La personalità “vincente” guarda chiunque dall’alto in basso, la personalità “perdente” guarda chiunque dal basso in alto. Quando la personalità “vincente” guarda in faccia chiunque altro, essa “sa” che è quel chiunque altro quello nel torto, tenuto a balbettare e vacillare e commettere errori e scusarsi ed a rendere conto a lei. Quando la personalità “perdente” guarda in faccia chiunque altro, essa “sa” di essere lei quella nel torto, tenuta a balbettare e vacillare e commettere errori e scusarsi ed a rendere conto a chiunque altro. Potresti aspettarti che il primo comandamento della “vincente” sia “Io sono perfetta, tu sei in difetto, a prescindere”, e che il primo comandamento della “perdente” sia “Io sono in difetto, tu sei perfetta, a prescindere”, ma è persino peggio di così. “Io ho ragione, tu hai torto, a prescindere”, è il primo comandamento della “vincente”; “Io ho torto, tu hai ragione, a prescindere”, è il primo comandamento della “perdente”; e “la personalità vincente la sa più lunga, a prescindere” è il secondo comandamento di entrambe.

L’attenzione fra i due potrebbe aiutare come un indicatore di quale sia l’uno e quale sia l’altro – attenzione in termini della dicotomia “interessato e interessante” –: dov’è l’attenzione di ciascuno? Se è sull’altro, allora si è interessati; se non lo è, allora si è interessanti: forse desiderosi di ricevere attenzione, certamente non disposti a darla. Il “perdente” sarà quello interessato, il “vincente” sarà l’interessante. Perché il “perdente” è quello disposto, disposto ad aiutare prestando attenzione ovunque qualcun altro ne abbia bisogno o addirittura lo richieda, compreso sé stesso, mentre il “vincente” è quello non disposto, non disposto ad aiutare prestando attenzione ovunque chiunque altro ne avrebbe bisogno o lo richiederebbe, men che meno sé stesso. E questo è rilevabile anche quando le cose sono meno elementari: Si possono fare domande, e fare domande potrebbe indicare che si è interessati, ma si tiene conto veramente delle risposte? Si potrebbe essere interessati in qualche elemento terzo diverso dal proprio interlocutore, e così sembrare interessati, ma si è interessati al proprio interlocutore indipendentemente da qualsiasi elemento terzo, o si usa quel terzo elemento come una scusa per negare il proprio interesse al proprio interlocutore? È lì che puoi rilevare chi è l’uno e chi è l’altro.

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Anche l’incolpare regolarmente gli altri per il ritardo fra il dire ed il fare potrebbe aiutare come un indicatore. Le idee sono istantanee, ma il realizzarle no, perché l’universo fisico ha dimensioni, massa, peso, inerzia, ecc., ed i tempi, requisiti e problemi conseguenti sono alquanto frustranti. Tanto che, oppressi da questo scarto, possiamo tendere allo scaricabarile; le gerarchie in modo particolare vengono spesso sfruttate per scaricare tali frustrazioni sui propri subordinati. Se un’idea deve essere realizzata, tollerare ed occuparsi dei vincoli dell’universo fisico è inevitabile, indipendentemente da chi dovrà farlo. Quindi, incolpare l’incaricato per non averla ancora realizzata senza fornire le risorse necessarie, a cominciare dal tempo necessario, è irrazionale. E la personalita “vincente” potrebbe indulgere proprio in questo in modo particolare, mentre una persona razionale, una volta sfogata la frustrazione, si tirerà pazientemente su le maniche.

E non cedere all’impulso di sminuire gli abusi del “vincente” considerandoli meri “effetti collaterali” ai margini di qualcos’altro più grande e migliore, perché è il contrario: essi sono il nucleo piuttosto che i margini. Quegli abusi sono lo scopo fondamentale dell’azione del “vincente”; come un ciclista legato alla bicicletta deve continuare a pedalare per evitare di fermarsi e cadere, deve commetterli come sacrifici umani per restare “vincente” davanti ai suoi personali demoni “perdenti”.

Di conseguenza, la legittima relazione fra causa ed effetto viene rovesciata: nonostante le apparenze, la personalità “vincente” non si dà delle arie perché passa avanti agli altri… è il contrario: passa avanti agli altri perché si dà delle arie. E la sola causa è la remissività e sudditanza della personalità “perdente”. Chi si inchina a chi? Chi scodinzola a chi, e chi carezza il muso a chi? Chi lancia il bastone, e chi lo riporta?

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Sappiamo che l’efficacia della soppressione si basa sul rimanere nascosta così che tu non ti renda conto di che cosa si tratti – soppressione –, e da dove venga – il soppressivo –. Quindi, quando si rimane inconsapevoli della vera sorgente degli attacchi, si continua a perdere mentre si continua a prendere fischi per fiaschi, finché non si affoga nell’apatia: vittima. Quando si è sconfitti sino al punto di venire sopraffatti, si è a rischio di scartare la personalità “perdente” – sé stessi – in favore di quella “vincente” – il carnefice – con tutto l’immaginabile danno sociale che deriva dalla moltiplicazione dei carnefici nella società. Qui è dove si passa il confine fra l’essere parte della soluzione e l’essere parte del problema; laddove una persona sopraffatta fino a “perdente” è ancora un alleato per i suoi simili, anche se inaffidabile, una persona sopraffatta fino a “vincente” è un loro nemico malefico. Che i genitori ribaltino sui figli la violenza che a loro volta essi hanno ricevuto da bambini dai loro genitori non è che la punta dell’iceberg, la “sindrome di Stoccolma” del rapito schierato dalla parte del rapitore contro i soccorritori non ne è che un caso particolare; in realtà non c’è limite ai danni che le persone sotto l’influenza di questo spostamento di personalità possono causare, e sono sicuro hai idea di cosa significhi veramente “mai abbassarti al loro livello” nella misura in cui ti rendi conto dell’importante piuttosto che dell’appariscente.

Prima di quello spostamento, il loro punto di vista sarà ancora basato su una separazione di identità fra vittima e carnefice, e produrrà come minimo un atteggiamento di “lo so che mi stanno opprimendo, ma controllano tutto, quindi cosa posso fare?” Proprio come chi ha una dipendenza, consapevole di essere danneggiato e degradato dalla dipendenza e quindi conscio che farebbe meglio a smettere e riscattarsi. Al termine dello spostamento, il loro punto di vista si baserà invece sull’unificazione delle identità, in cui la vittima rifugge dall’essere vittima assumendo l’identità del carnefice sino al punto di diventare il carnefice, e quindi l’atteggiamento sarà quello di schierarsi dalla parte dei carnefici, tanto contro le altre vittime quanto contro coloro che cercano di fare qualcosa. Proprio come chi ha una dipendenza “senza speranza”, che glorifica la dipendenza e ridicolizza e combatte qualsiasi cosa e chiunque abbia a che fare con lo smettere e lo sconfiggerla.

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E per coloro che sono sfuggiti a questa trappola c’è anche il secondo tranello pronto a catturarli: annegare nella personalità “perdente”. Il loro ruolo di perdenti diviene una missione alla quale si consacrano, e che essi siano tenuti a perdere mentre altri sono tenuti a vincere – opprimerli – diviene un articolo di ostinata fede cieca. Una forma di apatia questa, ed indipendentemente da quello che dicono, sono i loro atti ed i fatti a dimostrare che lo è: guai ai sacrileghi infedeli che osino insinuare che potrebbero e dovrebbero fare in proposito qualcosa di meglio che genuflettersi e subire passivamente.

“Vincente” o “perdente” che sia, quel che c’è dietro la comune etichetta “essere più realista del re” va ben al di là delle apparenze.

Un caso tipico ed un esempio impressionante di questo è quello degli artisti. È un caso orribile per le sue conseguenze per la società nel suo insieme, cioè tutti noi, a causa del loro ruolo di ispirazione: gli artisti affollano la sua prima linea, ma nelle retrovie si possono trovare anche quasi tutti gli altri. Gli artisti e l’arte si possono osservare spostarsi dal denunciare il male al diventare così abituati a qualsiasi tipo di comportamento autodistruttivo e socialmente distruttivo come la maniera in cui stanno le cose, che finiscono per santificare il male e ridicolizzare e combattere il fare qualcosa in proposito. È stato detto: “Vae Victis, guai ai vinti. Va benissimo combattere l’ingiustizia e ciascuno di noi dovrebbe farlo, ma guai a venire sconfitti e spinti nell’apatia inconsapevole o senza speranza, perché uno DIVENTA ciò che ha combattuto senza successo.” Se ne deduce quindi che la soluzione sta nel rimanere consapevoli, mai perdere la speranza, e vincere contro l’ingiustizia.

È stato detto qualcosa di fondamentale a proposito dell’arte e degli artisti, ed alla luce di questo acquista un significato ed un’importanza persino più profondi: il ruolo dell’artista è avanti. L’artista intrinsecamente esprime dove l’attuale stato di cose lascia a desiderare, e con la sua arte concepisce e comunica uno stato di cose migliorato; perciò il ruolo dell’artista è un ruolo chiave ma spinoso, dato che l’ideale è intrinsecamente in conflitto con l’esistente, i dormienti sono spesso ingrati con coloro che li aiutano, ed i soppressivi non dormono mai.

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Tuttavia, in assenza di un punto di vista autenticamente artistico, non c’è nessun modello verso cui fare rotta. Ed in assenza di un buon modello, le cose e la gente si avvitano su se stesse e si capottano. Quando l’artista abdica al suo ruolo spinoso ma vitale ed indispensabile, si sposta da davanti a di fianco, dentro, o persino dietro. Nel far questo, non cessa soltanto di essere parte della soluzione, ma diventa anche parte del problema. Una parte che può spostare l’ago della bilancia.

Purtroppo, troppi artisti iniziano come coloro che denunciano il male e finiscono come suoi fiancheggiatori, contribuendo a promuovere come la cosa giusta ciò che una volta combattevano. In breve, sono inavvertitamente scivolati nella personalità “vincente” o in quella “perdente”, ed ora essa si trova a fondamento della loro arte – testimoni le loro vite a rischio e decessi precoci. In merito a questo, ispeziona più da vicino il modo esatto in cui le morti premature degli artisti vengono santificate: tendono a venire viste come l’ovvio coerente finale di una lotta inconciliabile fra il conformismo del mondo ed il conformismo anticonformista dell’artista, basato su comportamenti infiltrati da istinti di morte; come risultato, quella morte dell’artista che c’era d’aspettarsi viene santificata come la cosa “giusta” da fare ed imitare, alla faccia del mondo malvagio che odia i poveri martiri. Il mondo e l’artista non si stanno accorgendo che stanno venendo entrambi fregati e messi l’uno contro l’altro dalla stessa terza parte. Hai presente quella scena tipica in certi film comici? Due persone si stanno guardando in cagnesco e molto da vicino, pronti a venire alle mani, poi le loro espressioni cambiano improvvisamente, ad indicare che si sono resi conto di qualcosa, e lentamente e simultaneamente i loro sguardi ruotano verso la macchina da presa… quello è il momento in cui la terza parte sa che il suo mascheramento è saltato…

Date premesse simili, vale la pena citare, così che non sfugga né sorprenda, il caso pressoché paradossale dell’essere PTS di sé stessi. La possibilità che la fonte dell’oppressione altri non sia che sé stessi è lungi dall’essere esclusa. Sicuro, tutta la depressione che apparentemente ha origine all’interno di sé è in un modo o nell’altro il risultato di oppressione ricevuta da qualcun altro all’esterno; ma la fonte dell’oppressione potrebbe al momento essersene andata da lungo tempo o molto lontano.

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La stessa cosa se l’oppressione apparentemente risale a qualsiasi altra cosa che non sia una persona, punto nel quale la risposta alla domanda “chi?” potrebbe ben essere: la persona che ci sta martellando con un’idea, una cosa, una condizione, altri non è che noi stessi. Ed ora si è sé stessi che, come risultato dell’essere passati ben bene attraverso il suddetto spostamento, si è assunto il ruolo del proprio carnefice. Sicuro, è folle, ma quanti fra noi? Quanti fra noi stanno ordinando cronicamente a sé stessi di stare zitti e rimpicciolirsi e tirarsi indietro ed abbassare la cresta ed abbattersi e consacrarsi all’inadeguatezza e all’inferiorità e arrendersi e fallire e perdere e tutte queste amenità, comunque ed a tutti i costi? E quanta la ricaduta su noi tutti?

Una volta ho visto un cartello stradale: il disegno di un guidatore sorridente, in una mano il volante, l'altra mano stesa a segnalare: «Prego, dopo di te.» Mi ha colpito come semplice e profondo. Dare la precedenza al volante potrebbe ben essere emanazione diretta della propria consapevolezza che al mondo ci sono anche gli altri, che hanno gli stessi nostri diritti. Un essere umano sano dà la precedenza per etica: cooperazione, buonsenso e gentilezza; una personalità "perdente" la dà come atto dovuto, ed una "vincente" se la aspetta e la dà per scontata e se la prende come un diritto divino, ed il ringraziare non è nemmeno concepito. Una cosa è l'impulso etico ed umano ad aiutare sino al punto di dare, e dare la precedenza, più di quanto si prende. Tutt'altra cosa è l'impulso subumano ed inumano di essere una vittima, ed ancora di più quello di essere un carnefice.

L'arroganza è rafforzata dalla coscienza sporca, perché una persona fondamentalmente sa; lasciare spazio per uno spiraglio di speranza e riscatto sempre e comunque è un fondamentale punto di fortuna o rovina delle civiltà, ma l'arroganza va fermata, non scusata, che l'arrogante si riscatti o meno. Trasformare gli altri in fonti potenziali di guai e plasmare le vittime in carnefici a sua immagine è forse l’insulto estremo del soppressivo e la stupidità ultima delle vittime. Certamente la faida a senso unico del soppressivo contro tutti noi è perpetuata senza fine unicamente da queste pedine. A meno che e fino a quando tu ed io non diciamo “Basta!”

A mio modesto parere, l’intera gamma della miseria umana si riduce a questo comun denominatore: personalità “vincente” e personalità “perdente” che prendono il sopravvento su di sé.