Riconoscimento e invalidazione

È stato isolato un errore basilare e tipico, è stato etichettato “invalidazione”, ed è stato definito come: rifiutare, negare, screditare, ecc. qualsiasi cosa qualcuno consideri un fatto. Se si considera che la luna sia fatta di formaggio, quello per sé stessi è un fatto; che sia vero o no, quello è un altro paio di maniche. Se si considera che il formaggio ci piace, anche quello per sé stessi è un fatto, indipendentemente da cosa pensi l’altra gente del formaggio.

Per comprendere l’invalidazione, un buon punto di partenza è dire che, dal momento che uno esiste, uno ha diritto al proprio punto di vista. Che il proprio punto di vista debba essere basato sulla verità e soggetto a confronto e discussione non intacca il fatto che si ha diritto ad avere un punto di vista in primo luogo, proprio come si ha diritto ad esistere. Per inciso, questo è uno di quei diritti viziati dalla difficoltà per la quale devi imparare a non dipendere da nessun altro per scoprirlo o perché ti sia riconosciuto, ma devi imparare a riconoscertelo e prendertelo da solo.

Perciò, una cosa è dire “il mio punto di vista è che il tuo punto di vista potrebbe migliorare in quanto questo e quest’altro, come puoi facilmente osservare” – ogniqualvolta sia una questione di fatti –, o che “i nostri punti di vista differiscono sulla base dell’inclinazione personale” – ogniqualvolta sia una questione di opinioni o di gusto –, tutt’altra cosa è dire “ti nego il diritto ad avere un punto di vista”, o, in altri termini, “non ti è permesso esistere; tu non sei.”

L’invalidazione è ancora più chiara quando paragonata a ciò che può essere visto come il suo opposto: il riconoscimento. Il riconoscimento è stato isolato come una parte chiave e vitale della comunicazione, e definito come: qualsiasi cosa detta o fatta per informare qualcuno che la sua comunicazione è stata notata, ricevuta e compresa.

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Vedere qualcuno è ricevere una comunicazione, salutare quel qualcuno è dare riconoscimento alla sua esistenza. Lasciar parlare, ascoltare, rispondere alle domande, dare riconoscimento in modo appropriato a ciò che viene detto – una cosa semplice, come un “capisco” –, tutte queste sono forme di riconoscimento.

Immagina di trascorrere un’intera giornata totalmente ignorato dai tuoi simili, tu e tutti i tuoi tentativi di comunicare, e poi immagina di trascorrere la stessa giornata pienamente ascoltato e riconosciuto, con tutti i tuoi aneliti di comunicare che hanno successo. Immagina come ti sentiresti in ciascun caso, e poi moltiplica quell’effetto per l’arco temporale di una vita: il valore terapeutico del riconoscimento e l’effetto invalidante della sua assenza possono lavorare anche per mezzo di accumulo lento e non rilevato a lungo termine. La mancanza di riconoscimento è decisamente una forma di invalidazione. E sfortunatamente il riconoscimento è uno dei beni di prima necessità più scarsi; se ti guardi intorno attentamente ed ampiamente, puoi stimare facilmente di quanta solitudine, disperazione e follia sia responsabile nella società questo preciso fattore.

Per quanto ovvio, un riconoscimento dev’essere tale dal punto di vista di chi lo riceve: se si inizia a ricevere qualsiasi altra cosa in risposta alla propria comunicazione, compreso l’accordo o il disaccordo, senza essere consapevoli di avere ricevuto riconoscimento, nessun riconoscimento ha avuto luogo, con tutte le sue conseguenze.

È molto importante precisare che il riconoscimento non è accordo, e che gli effetti terapeutici o invalidanti derivano dal riconoscimento o dalla sua assenza, non dall’accordo. Non soltanto “capisco” non significa “sono d’accordo” né “non sono d’accordo”, ma a quanto pare comunicare con i nostri simili è un fondamento persino più vitale del loro accordo. È ovvio che se ci si occupa di qualcosa è perché si considera importante occuparsene, e che nessuno è un’isola, quindi l’accordo del propri simili è fondamentale per chiunque; è leggermente meno ovvio che il riconoscimento sia persino più fondamentale dell’accordo. Dopo tutto, persino il disaccordo è una forma di riconoscimento: non puoi essere in disaccordo con quello che per te non esiste.

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Dopotutto, è stato detto anche che abbastanza comunicazione risolve qualsiasi cosa: qualunque disaccordo può essere risolto continuando a comunicare sinchè non ci si capisce abbastanza a vicenda. Essendo la verità il modo in cui stanno le cose, il riconoscimento ha molto a che vedere con la verità e l’invalidazione con la falsità, e probabilmente il valore terapeutico della verità e l’effetto invalidante delle falsità non si sottolineeranno mai abbastanza. E quanto al valore terapeutico del rispetto di sé, si potrebbe dire che il rispetto di sé consista nell’accertare prima e riconoscere poi la verità a proposito di sé stessi, per cominciare, e da cui cominciare.

D’altro canto, l’invalidazione ha uno spettro più ampio della semplice mancanza di riconoscimento, tanto ampio e vario quanti sono i modi di sopprimere la gente infiltrando in loro, apertamente o subdolamente, l’idea che non ci possono arrivare, che siano meno, che siano nulla. Sopprimere significa rendere qualcuno più piccolo; per rendere qualcuno più piccolo è alquanto determinante persuaderlo di essere meno di quanto in realtà è, spazzare via la verità con bugie fuorvianti verso il basso. Quindi, il modo probabilmente migliore di affrontare la gamma completa di cosa possa essere l’invalidazione è studiare i soppressivi: praticamente qualsiasi cosa qualsiasi soppressivo faccia si può ricondurre all’invalidazione. Il denominatore comune di tutto questo è quello di restringere gli orizzonti della gente, il loro perimetro, la sfera di cui sono consapevoli, che considerano di poter raggiungere, controllare, influenzare, abitare. Il denominatore comune è quello di rendere la gente sempre più piccola, verso lo zero. Si potrebbe anche dire che l’invalidazione consista nel distruggere il senso di realtà, di certezza, di fiducia in sé di qualcuno, perchè distruggergli il senso di realtà e di certezza e di fiducia in sè è un modo molto efficace di distruggere qualcuno.

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Verrebbe voglia di dire che gli effetti su di noi del riconoscimento e dell’invalidazione provano che siamo fatti per vivere insieme: il riconoscimento è qualcuno che ci dice “per me, tu sei”, e, come un germoglio alla luce, cresciamo; l’invalidazione è qualcuno che ci dice “per me, tu non sei”, e, come un germoglio nel buio, avvizziamo. Sembra dunque che “tu” sia importante per “me”.

L’invalidazione è un errore umano fondamentale, ma mentre la gente indulge in esso perché fondamentalmente non sa quello che fa, il soppressivo lo sa perfettamente e la usa intenzionalmente e deliberatamente. La gente invalida per etica scadente, umanità scadente, comprensione scadente; il soppressivo invalida per un solo preciso scopo: per sopprimere. E infine per un soppressivo invalidare è più spesso la norma che l’eccezione, è più probabilmente la routine ordinaria di cui non ci si accorge che l’appariscente impeto episodico; viene effettuata più efficacemente per mezzo dell’erosione quotidiana che di esplosioni isolate, dato che alla fine si crolla in modo più completo se lo si fa senza rendersi conto del perché, senz’alcuna apparente ragione in vista, e senza nemmeno accorgersene. Questo è il trucco.